Ogni martedì a partire da ottobre, terrò una nuova rubrica DIARIO DI UNA LUNATICA SULL’ORLO DI UNA CRISI DI SENSI per il sito di critica letteraria Satisfiction, diretto da Gian Paolo Serino e definito dal Corriere della Sera “gli enfants terribles della critica letteraria”.
Qui il mio primo pezzo.
Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli, e quando sono fedeli non sono belle.
(Carl Bertrand, prefazione a Dante Alighieri, Divina Commedia, 1887-1894)
Io non mi limito a tradire nella traduzione ma traslato la mia deviazione professionale anche alla sfera privata, fregiandomi di essere un’adorabile infedele. Sulla carta e sul materasso. Bipolare e bisessuale, sposo la sagacia di Woody Allen il quale sostiene che la bisessualità aumenta del 50% la possibilità di non andare in bianco il sabato sera. Allergica a qualsiasi costrizione e imposizione – con dissoluta eccezione per pratiche di shibari, la disciplina erotica giapponese con le corde, o BDSM, l’altalena sessuale tra dominazione e sottomissione – io rifuggo a gambe spalancate la sedentarietà amorosa in incostante e delirante ricerca di avventure e disavventure. Venere In Pelliccia (1870) rappresenta la bibbia pagana del sadomasochismo, capolavoro dello scrittore austriaco Leopold Von Sacher-Masoch, mio libro feticcio che brandisco a mo’ di frustino intellettuale. L’opera racconta l’incontro/scontro tra il giovane aristocratico Severin e la bella e ricca nobildonna Wanda Dunajew. Le loro dissertazioni filosofiche e personali li conducono a sottoscrivere un contratto: lui, con il nome Gregor, diventerà suo schiavo e lei la sua dea con potere di vita e di morte su di lui purché, ispirandosi alla Venere allo specchio di Tiziano, lei indossi una pelliccia.
Nei nostri tempi moderni il testo originale è stato adattato a pièce teatrale da David Ives, co-sceneggiatore dell’omonimo film diretto da quel controverso geniaccio cinematografico di Roman Polanski con protagonista la conturbante moglie del regista, Emmanuelle Seigner. Film che ricordo andai a vedere in un cinema d’essai semivuoto, agghindata in look all-black con pantacollant, stivali cuissardes e immancabile pelliccia in compagnia di un amante che non ebbe nemmeno l’ardire di molestarmi nel buio della sala! Inutile precisare che da spietata dominatrice, usciti dal cinema, lo scaricai sdegnata sul marciapiede. E vestita com’ero, non mi ci volle molto a scovare, e non solo quello, un’altra vittima da sottomettere ai miei perversi comandi.
Viviamo tempi complicati e annoiati in materia di relazioni personali, tutti affannati a digitare online sesso e amore, ormai incapaci di relazionarci dal vivo e nel vero, fottutamente intimiditi dalla scure del politicamente corretto e del #MeToo, ormai diventato un movimento estremista e pervasivo al pari del Maccartismo degli anni Cinquanta quando a Hollywood chiunque fosse anche solo sospettato di essere comunista finiva nella lista nera di personae non gratae nel mondo ipocritamente dorato, viziato e vizioso dello show-business. Siamo tornati alla caccia alle streghe, in questo caso stregoni da mettere alla berlina attraverso i forconi dei social media, soprattutto negli Stati Uniti, patria della scopata a contratto, dove ormai spopolano app con nomi suggestivi quali Consent Amour, Legal Fling, The Consent App e YesMeansYes per dare il consenso sessuale prima di sollazzarsi tra i guizzi del materasso.
Nella mia rubrica EroticaMente sulla rivista Maxim, ho definito Maccartismo sessuale l’implacabile deriva del movimento #MeToo, di cui sto leggendo la genesi nel libro She Said scritto da Jodi Kantor e Meghan Twohey le due giornaliste del New York Times, il primo quotidiano a svelare la storia di abusi del produttore Harvey Weinstein, indagine per la quale le due giornaliste furono insignite del Premio Pulitzer. Da donna, ma preferirei dire da essere umano, sono assolutamente contraria a qualsiasi forma di abuso e prevaricazione, nella sfera familiare così come in quella professionale. Un’altra cosa, però, è condannare le opere di artisti con una vita privata perversa e controversa.
Allo scorso Festival del Cinema di Venezia, Lucrezia Martel, regista argentina e presidente della giuria della 76esima edizione, ha dichiarato che non avrebbe partecipato alla cena di gala in onore di Roman Polanski per non doversi alzare ad applaudire un condannato per abusi sessuali. Il caso di Polanski è arcinoto: nei trasgressivi anni Settanta, il regista si approfittò di una tredicenne, Samantha Geimer – che negli anni l’ha perdonato, scrivendo anche un libro sulla vicenda – nella villa del compare Jack Nicholson dove Quaaludes (i tranquillanti più à la page in quegli anni), alcool e droghe scorrevano a fiumi. Perché nessuno si domandò allora come mai i genitori di una minorenne avessero acconsentito a lasciarla andare a casa di due famosi bad boys, rinomati puttanieri, del cinema? Ai tempi tutte le celebrità si scagliarono in difesa di Polanski, tra cui la più accanita fu una certa Mia Farrow, che tardivamente, per la precisione 41 anni dopo, si scuserà della sua difesa con un tweet. Oggi la scure del politicamente corretto è in grado di distruggere carriere ed eredità artistiche, rischiando di fare di tutta l’erba un fascio e di scadere nella censura preventiva. Oggi il grande scrittore russo Vladimir Nabokov non credo avrebbe trovato un editore così coraggioso da pubblicare il suo libro scandalo, nonché capolavoro, Lolita.
Detesto l’idea di vivere in una società che monitorizza ciò che posso vedere, leggere, ascoltare. Io distinguo l’opera dall’artista. E forse a comportarsi troppo bene, si cavano solo banuali (da manuale + banale) di starlette d’Instagram con broncio perenne, bocca a chiulo di gallina e chiappa plastificata.
Altro lampante e allarmante esempio di censura è quello di un cineasta della risma di Woody Allen che si vede costretto a fare causa ad Amazon, produttore del suo ultimo film A Rainy Day in New York perché il film sia distribuito. Il colosso del commercio online si è trasformato da “amazzone” a “zecca” decidendo di sottomettersi al politicamente corretto tanto in voga oggi e di non distribuire il film che aveva prodotto dopo l’ennesima manfrina da parte della figlia adottiva del regista, Dylan Farrow, che negli anni Novanta accusò il padre di molestie sessuali, istruita ad hoc dalla madre Mia, sedotta e abbandonata per Soon-Yi, altra figlia adottiva della Farrow (ma non di Allen), nonché attuale moglie del regista, con il quale ha avuto due figli. Allen subì due processi quasi trent’anni fa e fu ritenuto innocente perché le accuse di presunte molestie sembravano orchestrate. La Farrow, con quell’aria da fatina, di figli ne aveva ben 14, di cui 10 adottati e 4 biologici. Di questi, tre sono morti: uno suicida, una per apparente insufficienza cardiaca, anche se pare si sia trattato di overdose e un altro per complicazioni dovute all’AIDS. Altra notizia poco conosciuta della super mamma Mia è la detenzione in carcere del fratello John Villers-Farrow, condannato nel 2013 a dieci anni di carcere per aver molestato due ragazzini minorenni.
Insomma, chi è senza peccato, scagli la prima pietra così finiamo tutti lapidati all’Intifada delle pietre. Io preferisco di gran lunga essere una “pietra rotolante”, sviluppare il mio pensiero critico senza censure e distinguere tra stupro, molestie e avances.
PS Se l’articolo dovesse risultare altalenante, lisergico e strampalato, è perché io mi fregio di essere una devota seguace del “gonzo journalism,” stile giornalistico inaugurato dal compianto Hunter S. Thompson nel 1970 e inneggiante a una scrittura eclettica, controcorrente, bizzarra e surreale.