23 NOVEMBRE 1980: L'IRPINIA É DISTRUTTA
23 novembre 2016
di Mariangela Mombelli
Dalle 19:24 del 23 novembre 1980 Irpinia è sinonimo di terremoto. Quella che fino ad allora era conosciuta, e neanche a tanti, per essere un’area a cavallo tra la Campania e la Basilicata, fatta di paesi dai nomi sconosciuti, è diventata l’emblema della devastazione che un sisma di quella portata (6.9 della scala Richter) è in grado di produrre: 3000 morti, 8000 feriti, 235.000 senza tetto. I numeri raccontano di paesi rasi al suolo, di case da abbandonare perché inagibili, di attività produttive e artigianali irrimediabilmente compromesse, di traumi incancellabili in chi è sopravvissuto e ha dovuto ricostruire, insieme alle case, la propria esistenza. Il ricordo di quella domenica di novembre di 36 anni fa, purtroppo, quest’anno è reso ancora più attuale dai recenti episodi sismici che hanno interessato il Centro Italia. Le immagini di oggi di Amatrice, Ussita, Arquata del Tronto, Visso, Norcia sono sovrapponibili a quelle di Balvano, Ricigliano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Laviano di allora. Negli sguardi delle persone lo stesso smarrimento, uguali sono le lacrime e lo sconforto di chi ha perso tutto, identica la paura di affrontare i tempi e le incognite della ricostruzione. Diversi oggi sono i mezzi di comunicazione con cui il terremoto viene raccontato; nel 1980 non c’erano internet, i social, le foto postate in tempo reale e quel 23 novembre la percezione dell’avvenuta catastrofe e dell’altissimo numero di morti non fu così immediata. La stessa macchina dei soccorsi si mise in moto in ritardo e in maniera disordinata, molti dei volontari che si recarono in quei luoghi per portare aiuto alle popolazioni colpite faticarono a raggiungere le aree interessate sia per l’impraticabilità delle strade che per la mancanza di coordinamento nei soccorsi stessi. “Fate presto” scriveva in prima pagina il quotidiano “Il mattino” a tre giorni dalla scossa “per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”. Lo stesso Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, pronunciò nei giorni immediatamente successivi parole dure di denuncia dell’inadeguatezza dei soccorsi - “Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi”. Come oggi, anche allora numerosissimi furono i volontari che, a vario titolo organizzati, raggiunsero l’Irpinia per portare aiuti immediati o per partecipare alle successive fasi della ricostruzione. Tra questi anche chi scrive, fresca di maturità, prese parte a uno dei tanti campi di lavoro avviati nella zona. Mi recai a Ricigliano, un piccolo paese della provincia di Avellino che perse una trentina di abitanti sotto le macerie e il cui 85% delle case risultò inagibile: lì don Gino Piccio, ex prete operaio di Ottiglio Monferrato, supportato dalla Caritas di Casale Monferrato, affiancò al lavoro di ricostruzione vero e proprio, un’attività di coscientizzazione con la popolazione locale attraverso il metodo di ricerca della “Pedagogia degli Oppressi” di Paulo Freire. Nell’arco dei quattro anni di permanenza a Ricigliano don Gino, due obiettori di coscienza e i numerosi volontari che si sono susseguiti, hanno incontrato la gente, ne hanno ascoltato le sofferenze, raccolto le richieste, e, soprattutto, l’hanno aiutata a comprendere la dimensione collettiva del loro dramma, attraverso incontri assembleari, a cui la comunità non era avvezza, nei quali venivano discussi i miti, le contraddizioni e i pregiudizi, ovvero le situazioni vissute in modo contrario ai propri diritti e doveri o alle proprie esigenze e aspirazioni che caratterizzavano la società locale, per cercare di giungere a soluzioni partendo dalla presa di coscienza dei condizionamenti culturali e sociali che opprimevano la popolazione. Fu una grande esperienza di ri-costruzione del senso collettivo della comunità e del bene della gente che durò nel tempo. Nei dieci anni successivi, rimase tra la popolazione di Ricigliano l’abitudine a far precedere ogni riunione del consiglio comunale da un pre-consiglio aperto a tutta la cittadinanza, in cui tutti potessero esprimere liberamente le loro esigenze. Il terremoto mette di fronte a un prima e a un dopo: nulla è più come prima e le macerie sono il segno tangibile che quello che è stato non è più, la ricostruzione non può prescindere da un protagonismo nuovo delle persone, da un loro maggiore e più responsabile coinvolgimento democratico dal basso. Una cosa ci auguriamo non arrivi ad accomunare il sisma di oggi a quello di allora: gli scandali che si sono verificati nella ricostruzione. Il fiume di denaro stanziato negli anni successivi al terremoto del 1980 finì anche nelle tasche della camorra attraverso un sistema di connivenze e di interessi elettorali locali, di irregolarità e di speculazione nella gestione del denaro pubblico, soprattutto nelle aree campane più interessate dal malaffare locale vicino alle organizzazioni mafiose che gestiscono il territorio. Il numero dei comuni colpiti passò da 36 in un primo momento a 280 in seguito a un decreto dell’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani, fino a raggiungere la cifra finale di 687, l’8,5% del totale dei comuni italiani. La ricostruzione post-terremoto è storicamente un boccone ghiotto per la criminalità organizzata: quella dell’Irpinia è costata 47 miliardi di euro e molte opere risultano ancora incompiute. I rischi di infiltrazione nella ricostruzione delle aree terremotate sono purtroppo sempre alti, vogliamo sperare di avere a che fare, oggi, con un sistema di contrasto alla cementificazione selvaggia e agli interessi mafiosi che sia consolidato ed efficace.
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