Me lo ricordo, sai?
27 maggio 2016
di Lorenza Gianotti
La luce del sole illuminò la fede dell’uomo che le camminava davanti con le mani intrecciate dietro la schiena. Maria non cadde dalla bicicletta, così come aveva fatto S. Paolo da cavallo, ma ne rimase folgorata.
Aveva appena deciso che avrebbe rinunciato a partecipare a quel concorso letterario indicatole dalla sua insegnante del corso di scrittura creativa. Il tema assegnato sul colore, così vago e distante, non le aveva suscitato sino a ora alcun interesse o fatto vibrare qualche corda.
Pochi minuti prima aveva attraversato il cortile della biblioteca, accompagnata dall’ impressione di essere capitata magicamente all’interno di un dipinto a tinte verdi e lilla. Si era ubriacata del profumo del glicine nel pieno della sua fioritura, ed era tornata con la memoria a quando, da bambina, assaporava, di nascosto, gli stessi fiori nel suo giardino. Nonostante quel fil rouge, non era riuscita a ideare un racconto per lei particolarmente coinvolgente. Si era ritrovata a inseguire passivamente il rapido concatenarsi di associazioni libere, che l’avevano condotta, senza che riuscisse a opporre una ferma resistenza, al turchino degli occhi dell’uomo che aveva così amato, ma la cui immagine idealizzata non aveva retto l’impatto con la realtà. Quel meraviglioso colore si era crudelmente trasformato in un mantello blu notte, che l’aveva avvolta e portata in un buio esistenziale. Le sembrava di essere sull’orlo di un enorme, quanto terrificante, buco nero. Era riuscita a uscire appena due anni prima da quella vita tinta di petrolio e non era disposta a ricaderci. Per un uomo. Anzi, come si ripeteva di continuo, per un maschio. E non era solo un gioco di parole.
Aveva passato in rassegna tutti i colori, senza trovarne uno solo che la trascinasse al computer e la obbligasse a scrivere. Già, perché Maria aveva cominciato a riapprocciarsi alla scrittura dopo tanti non detti rimasti incastrati tra lo stomaco e la gola. Non aveva assecondato un desiderio, ma una forza interiore incontenibile, simile all’urgenza di un conato di vomito. La sua era stata un’esigenza: nulla di più, nulla di meno.
Per questo non riusciva a inventare a comando, doveva sempre esserci una molla interiore a catapultarla nel mondo delle parole.
Il luccichio di quell’anello, però, la colse del tutto impreparata e la travolse in viaggi emozionali a ritroso nel tempo. Il color oro, lo stesso dei suoi soffici capelli, era l’unico al quale proprio non aveva pensato, eppure si palesava come il solo che le stesse raccontando e smuovendo ben più di qualcosa.
Ricordava perfettamente il momento esatto e il motivo per il quale si era sfilata definitivamente il suo, quel 21 Dicembre di un anno prima, e non in un altro giorno. Aveva un appuntamento quella sera stessa con un uomo e non voleva rivivere la spiacevole sensazione di presentarsi con la fede al dito. Le sembrava indelicato e menzognero. Il suo matrimonio, anche se ancora non formalmente, aveva cessato di esistere. E lei non era abituata a compromessi e bugie. Non ci doveva essere spazio, in un eventuale futuro, per un ingombrante passato.
L’aveva tolto d’impulso, se l’era rigirato tra le dita, aveva letto per l’ennesima volta il nome inciso al suo interno e lo aveva riposto senza cura particolare nel portagioielli. Anche i suoi sentimenti giacevano sistemati alla rinfusa nel cassetto delle emozioni. Ne aveva richiuso il coperchio, così come stava cercando di mettere fine a un capitolo della sua vita.
Riguardò la mano dell’uomo davanti a lei. Quale alchimia aveva scoperto per far durare l’amore? Perché lui sì e lei no? Chissà se alla mattina si svegliava felice, o almeno sereno, d’ inciampare nello sguardo di sua moglie, se riusciva a vederla e a farla sentire ancora una donna, nonostante l’ appiattimento derivato dalla quotidianità e gli anni scolpiti sul viso e sui fianchi. Chissà se era più un’abitudine, una convenienza, una fatica o una benedizione. Chissà se la moglie nutriva ancora desideri o sognava amori irrealizzabili e se aveva rinunciato a se stessa in nome della famiglia. Quanti errori aveva fatto Maria! Quando aveva smesso di brillare di luce propria la fede che aveva portato al dito? Si era spenta piano piano, ma lei si era talmente abituata alla penombra da non accorgersi di stare precipitando nell’oscurità. Eppure, non era nato tutto da una scintilla?
Riavvolgendo la matassa del filo dei ricordi, si rivide a Vienna, in una delle sale del Belvedere. Era andata lì appositamente per ammirare i capolavori di Klimt, ma non avrebbe mai creduto che la visione de “Il bacio”, grande quanto la parete, l’avrebbe costretta a sedersi per riprendere fiato. L’oro dello sfondo l’ abbagliava e lei, incredula davanti non solo alla magnificenza di quell’opera, ma anche alla sua stessa reazione, lo fissava attonita, cercando di capire che cosa la stesse facendo sentire così. Quel quadro le stava parlando, le stava trapassando l’anima. Senza esprimere giudizi, le stava spiegando cosa fosse davvero l’Amore. Come se fosse seduta davanti a un proiettore, affiancava diapositive della sua vita a quell’immagine.
L’elemento preponderante era la doratura dello sfondo e degli abiti dell’uomo e della donna raffigurati, a suggerire che, per un’unione perfetta, fosse necessaria una visione d’insieme comune. Le vesti a fantasie diverse, davano l’idea che, in questa fusione, fosse indispensabile che ognuno rimanesse se stesso. In questo essere insieme, senza venir meno alla propria unicità, era possibile contemplare quell’abbandono, ora ultraterreno, ora sensuale, che il dipinto raccontava. Solo allora l’amore avrebbe potuto germogliare e dar vita a foglie e fiori di tutte le sfumature di colori.
Fu quel quadro a farle capire cosa non aveva funzionato con l’uomo che aveva sposato e cosa avrebbe cercato nella sua nuova vita. Lui le aveva spento i colori, l’aveva appiattita, abbruttita in un grigio topo. Vietati i bianchi e i neri, così come le aveva vietato di esprimere opinioni contrastanti con le sue.
Maria si toccò i capelli color oro, che si sposavano perfettamente con il suo carattere solare, ed ebbe il desiderio di sfogliare un vecchio album di fotografie, dove si ricordava esserci uno scatto che la ritraeva all’età di circa tre anni. Un faccino buffo, con un improbabile taglio molto corto, un sorriso birichino, due fossette sulle guance e uno sguardo che diceva mille cose. All’epoca la chiamavano “Pagliuzza” per via di quei capelli color del grano. Maria guardò a lungo quell’immagine e si ritrovò a piangere per quella bambina che ancora si portava dentro e che suo marito aveva tradito. Perché, in fin dei conti, era di questo che lo incolpava sopra ogni cosa: per averla depredata della capacità che conservava di avere uno sguardo incantato sul mondo, della certezza che il bene portasse sempre altro bene e che “per sempre” non fosse solo la frase finale delle favole.
Le venne voglia di stringere in un abbraccio quella bambina con gli occhi sgranati, che sembravano voler contenere tutto il mondo e mille futuri possibili da vivere. L’assalì il desiderio di ninnarla e ripeterle, come un mantra, che ce l’avrebbe fatta a crescere, che non si sarebbe dimenticata dei suoi sogni, né dei suoi talenti.
Tornò al computer. “Stai tranquilla” le sembrò di sussurrarle “me lo ricordo, sai, che ti piaceva scrivere…”
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News » LETTERATURA E LIBRI | venerdì 27 maggio 2016
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