Elvira Samonà...Amsterdam e l’India14/12/2018
Elvira Samonà...Amsterdam e l’India14/12/2018
Memoria e foto di Adriana Saja
E’ passato, il tempo. Quasi mezzo secolo, ormai.
Camminavamo mano nella mano in autostop da Palermo verso Amsterdam, la nostra meta.
Un viaggio all’estero decisamente speciale. Anche perché c’eri tu con me.
Quante ore passate a raccontarci ciascuna all’altra di sè, mentre curiose scoprivamo noi stesse!
Non molto alta, né grassa né magra, i riccioli neri, gli occhi verde-azzurro stupendi, cristallini come il tuo animo.
La tua bellezza seducente era del tutto spontanea e naturale. Niente trucchi o vezzi artificialmente femminei. Leggera muovevi i tuoi passi, intorno più che sopra al tuo mondo.
Ci univa una condivisione di sogni e un forte sentimento di libertà, negata alle donne di allora e di sempre.
Un’oppressione maschile violenta e offensiva, del tutto insensibile.
Eravamo nella Palermo di fine anni ’60, dove per lo più le ragazze, a parte te e me, erano chiuse in casa e non potevano uscire da sole. Mentre i fratelli lo facevano senza problemi. Il maschio padre-padrone era la norma nella famiglia siciliana di quel tempo, e forse soltanto io, in tutta Palermo, avevo la fortuna di avere un genitore illuminato e molto più avanti rispetto ai tempi e ai costumi ristretti di quel periodo.
Un uomo straordinario e fuori dal comune, che mi lasciò da sola a 15 anni a Parigi, perché sapeva che me la sarei potuta egregiamente cavare. Si fidava di me e non temeva miei passi falsi.
Tu non lo avevi più tuo padre. Se ne era andato, nel tuo stesso identico modo.
Così fu il femminismo ad unirci, ma ci saremmo incontrate indubbiamente lo stesso per qualche altra ragione. Tanto vicine ci sentivamo, che mi è impossibile pensare il contrario.
Tu di qualche anno più grande, ma più fragile e insicura. Io un vulcano in continua eruzione, irrefrenabile nel desiderio di conoscenza. E insieme tante risate ed esortazioni reciproche. Ci facevamo coraggio, perché non volevamo rinunciare a quel viaggio, che sapevamo rischioso. Più forti erano il bisogno di libertà e il desiderio di avventura.
Arrivammo in soli due giorni, senza aspettare più di cinque minuti per volta di ricevere un passaggio, tranne in Svizzera, dove il tempo medio di attesa fu di trenta minuti e dove non sono più tornata. Non so se per un caso o meno.
Un viaggio piuttosto sereno, ad eccezione di una brutta esperienza in Germania, dove rischiammo di essere violentate da due ragazzi, che ci avevano dato un passaggio in un furgoncino Volkswagen di colore beige chiaro. Inutile dire, per chi abbia conosciuto Elvira, che, sebbene più giovane di età, toccò a me tirarci fuori dai guai.
Ci addentrammo in un luogo isolato, tra una fitta boscaglia, di cui ricordo solo gli alberi, poco lontano dalla statale. Mi ero resa conto di essere in pericolo, quando avevo visto il veicolo uscire di strada, deviando per una viuzza laterale e di campagna. E non fermarsi malgrado le mie proteste. Elvira sconvolta, tremante dallo spavento, era incapace di reagire. Poi non mi sovviene in mente altro, se non anche la mia di paura e il sollievo, poco dopo, di avercela fatta, non so bene come, ad evitare quella violenza. Di sicuro li avevo in qualche modo convinti, perché mi ero messa a parlare con loro senza smettere un momento. Che cosa però dissi da riuscire a fermarli, non lo ricordo affatto.
Era stato comunque uno di quei rischi che avevamo calcolato e che per fortuna non ebbe altra conseguenza al di là di una forte negativa emozione di pericolo.
Ricordo poi un altro episodio piuttosto singolare, questa volta divertente. Eravamo sdraiate sull’erba di non so quale parco di Amsterdam, quando l’Esercito della Salvezza, nelle persone di due rigide e severe fanciulle in divisa, si avvicinò per ricondurci, a loro intendere, sulla retta via.
Che il nostro aspetto potesse apparire così disperato da necessitare l’aiuto di qualcuno, è assolutamente da escludersi. Nessuna droga, né alcool e nemmeno una particolare trasandatezza; i soliti jeans e maglietta colorata, puliti e graziosi. Dunque il perché la loro scelta ricadde su di noi, tra tante altre ragazze e altrettanti ragazzi del parco, sicuramente più navigati di noi, mi è ancora adesso del tutto sconosciuto. Dopo qualche minuto di stupore, poichè davvero non riuscivamo a capire e a credere alle loro assurde intenzioni, divenute via via sempre più chiare ed evidenti, scoppiammo a ridere a crepapelle, così da spiazzarle e confonderle, finché alla fine si arresero e dovettero recedere dalla loro missione salvifica. La stranezza di quell’approccio continuò a farci ridere per tutto quel giorno. Chissà, invece loro forse restarono persino deluse di quel fallimento e ai loro occhi sembravamo perdute davvero, magari per il solo fatto di essere due giovanissime fanciulle in viaggio, sole e lontane dalla famiglia. Evidentemente anche per l’Esercito della Salvezza olandese, e non solo per la Sicilia, era questa una cosa del tutto disdicevole e inopportuna.
Amsterdam mi apparve subito bellissima, col suo groviglio ordinato di canali, la sua luce particolare come riflessa, l’aria frizzante anche col sole, un via vai di mondi stranieri e variopinti. Un infinito, meraviglioso sapore di libertà conquistata. Le chiese gotiche fiammeggianti, i magnifici acciottolati delle sue piazze e strade, i palazzi monumentali accanto alle piccole e modeste case sulle rive dell’Amstel. E le barche dappertutto, in una città della consistenza dell’acqua, nella sua essenza. Fluida, ospitale e accattivante.
E certamente l’essere lì, finalmente padrone di noi stesse e libere, rendeva tutta l’atmosfera ancora più entusiasmante e gradevole.
Furono giorni indimenticabili che ci legarono l’una all’altra come compagne di viaggio anche nella vita. Sebbene poi, come spesso accade, le nostre strade si divisero. Ma mai al punto da farci dimenticare definitivamente l’una dell’altra.
Entrambe sensibilissime, avevamo in comune anche una genetica ingenuità per le cose mondo, incapaci di sospettare inganni e o anche solo immaginare qualcosa di male. Nessuna delle due aveva malizia ed era per sua natura diffidente. Questo aspetto del nostro carattere, se a me procurò poi disgrazie e dolori, per Elvira fu addirittura, almeno in parte, causa della sua morte, perché si fidò, in un momento di particolare fragilità e debolezza, della persona sbagliata.
Finiti i miei studi liceali, io andai a vivere a Roma per frequentare l'università, lei si trasferì a Firenze.
Insegnava scienze alle medie, ma a scuola non sopportava l’atmosfera opprimente e violenta dell’istituzione scolastica italiana. Il conflitto tra il dover essere e la propria natura, che la mistificazione pedagogica impone, era per lei insostenibile. Ne soffriva moltissimo. Ricordo i suoi sfoghi di pianto, quando me ne parlava, allorché, di tanto in tanto, andavo a trovarla. Anche reggere e gestire la classe, con i bambini pronti a colpirti nelle tuoi punti deboli, le costava fatica psicologica e mantenere la disciplina le risultava difficoltoso. Per non parlare poi del suo conflittuale rapporto con l’autorità.
Fu così che, dopo alcuni anni, abbandonò la scuola e divenne falegname, a Milano. Una volta la raggiunsi proprio nella falegnameria dove lavorava, insieme ad altre femministe, alle prese con la costruzione di un tavolo la cui squadratura le risultava alquanto difficile da realizzare, essendo appena agli inizi di quel nuovo mestiere. Provai una tenerezza infinita per il suo evidente disagio e scontento, e mi offrii di aiutarla, non ricordo con quali risultati, anche se certamente maggiore in me era il senso pratico, lei invece sempre un po' persa ad inseguire le nuvole. Eppure la luce, la grande stanza del laboratorio, i trucioli di legno, il tavolo e gli attrezzi di lavoro, insieme a quel viso ornato da riccioli ribelli come il suo istinto, su cui splendevano due magnifici occhi verdi dalle venature simili alle onde di un mare azzurro intenso, sono rimasti impressi nella mia memoria come una foto antica, ma nitida nelle sue immagini sbiadite seppure ancora distintamente rappresentate.
E’ questo l’ultimo ricordo che ho di te, mia dolce carissima Elvira. Amica e sorella della mia adolescenza e della mia prima giovinezza. Poi la tua tragedia mi raggiunse con una fitta di dolore acutissima, per un’assenza divenuta definitiva, per saperti ormai da me lontana per sempre. Per non averti potuto almeno salutare un’ultima volta, prima del tuo viaggio finale.
Ma come tante altre cose strane della mia vita, sei ritornata a me, dopo alcuni anni e per caso su una nave, in un altro viaggio per mare che avevo intrapreso da sola.
Ero in navigazione sul ponte di un traghetto e da poco avevo conosciuto una donna di qualche anno più grande di me, di Milano.
Raccontandoci di noi per fare un po’ di conoscenza, scoprimmo di averti avuta amica comune.
Ed era stata proprio lei, cosa incredibile a credersi, ad averti per prima trovata, il giorno che ci hai voluto lasciare. Raramente nella mia vita ho provato emozione più forte di allora. E sebbene io quella donna non l’abbia mai più rivista o incontrata, rimane per me il tramite fisico della tua presenza spirituale.
Avevi scoperto l’India, molti anni prima di andartene via da questo mondo. Nel tuo bisogno di certezze, Osho e l’ashram ti erano apparsi un porto sicuro, un’ancora di equilibrio e stabilità. Un punto di riferimento cui aggrapparti, che io invece non ho mai cercato fuori di me, se non in qualche rara situazione particolare e dunque solo in modo occasionale e passeggero.
Era questa la prima grande differenza tra noi. Non l’unica certo, ma la più significativa.
Io amo il dubbio, la perenne costante sperimentazione del vivere e dell’esistere quotidiano. Non posso affidarmi a un Maestro, e sebbene nella mia vita ne abbia riconosciuto qualcuno, è stato sempre in senso limitato e contingente. Mai assoluto. Non sopporto le religioni, qualsiasi forma di istituzionalizzazione del pensiero. Rifuggo da regole rigide e da rituali che non siano occasionali. Riconosco con Jung, essere l’eccezione l’unica vera regola della vita.
Sento l’India dimensione a me naturale, perché suscita immediata la connessione con il sé interiore, perché offre subito al visitatore l’occasione di ritrovarsi e centrarsi su se stesso. Un rimandare la propria coscienza di sé alla genesi del suo concretizzarsi.
Accade così che il tempo dell’attesa diventa un tempo dilatato all’infinito, fino a perdere la sua consistenza.
Accade così che nel percorrere le strade della quotidianità, ogni ripetizione di gesti è innovazione di sentimenti.
E nessuna cosa, seppure riproposta infinite volte, è uguale a se stessa.
C’è intorno, nell’aria, negli odori, nei colori, nelle strade di questo mondo così particolare un senso umano della propria finitezza terrena che coincide con la percezione di un’eternità spirituale consolatrice e avvolgente.
Un affidarsi a qualcosa di più grande di noi che, nel ricordarci la nostra piccolezza, ci permette di scoprire la vera grandezza della Madre Terra e dell’Universo, di cui pur tuttavia, quasi per caso e in modo insignificante, anche noi facciamo parte.
Molti la chiamano Divinità.
(...continua)