di Mariangela Mombelli
Il culto dei morti appartiene da sempre a tutte il culture sacre subalterne popolari ed è presente in molti aspetti folkloristici tradizionali ancora attuali.
Uno dei rituali del lutto più significativi è quello del lamento funebre, o meglio della “lamentazione professionale”. Il lamento funebre, cantato o recitato, è una pratica antichissima, una tecnica del piangere: con forti grida e struggenti cantilene le prefiche, “lamentatrici” di mestiere, ricordavano le virtù del morto ed esprimevano il dolore del distacco arrivando persino a strapparsi i capelli o a graffiarsi il viso.
Già nell’antica Grecia per i funerali si ricorreva alle donne specializzate nel piangere che esaltavano, a chiome sciolte, i meriti del defunto. Anche nella Roma classica le prefiche erano parte importante del corteo funebre che accompagnava la salma. Il loro intervento nei funerali, nonostante sia stato da più parti combattuto, si è tramandato nei secoli dal nord al sud Italia. In Piemonte, nelle zone del Cuneese e del Canavese, le “piagnone” hanno accompagnato i defunti fino all’inizio del Novecento; in Lombardia, in particolare in alcune zone del Mantovano e del Cremonese, la presenza delle “piansune” è ricordata fino agli anni a cavallo delle due guerre mondiali. Nelle Marche, fino alla metà del XX secolo, nella zona di Macerata è usanza convocare 100 donne vestite di nero che piangono durante il corteo funebre. Negli stessi anni in Molise le “repute” e le “chiangitare” in Calabria piangono muovendo il capo e agitando sul cadavere un fazzoletto. In Lucania, fino agli anni Cinquanta, ogni villaggio aveva un suo modo particolare di lamentare il morto e la lamentazione era variamente caratterizzata al punto che le lamentatrici ne facevano una questione campanilistica. In Campania le prefiche e il loro lamento accompagnavano il defunto in chiesa per riprendere dopo la liturgia fino al camposanto e al termine dell’intero rito funebre venivano invitate al banchetto dai parenti del morto. In Sardegna erano le “attitadoras”, ovvero le poetesse del culto funebre, che accompagnavano l’estremo saluto alla salma con un canto disperato e con il dondolio ritmico del corpo. Le “attitadoras” non erano chiamate dalla famiglia del defunto, ma agivano una semplice forma di partecipazione collettiva al lutto e più riuscivano a suscitare commozione, più i parenti del defunto dimostravano loro riconoscenza donando grano, vino, olio. Quella del lamento funebre, ognuna con le caratteristiche proprie delle tradizioni locali, era una pratica tutta al femminile e la lamentatrice professionista rimane indubbiamente una figura affascinante sul piano umano: erano donne che coglievano l’occasione di un lutto per rinnovare il lamento per un proprio defunto, si trattava perlopiù di donne che avevano perso figli giovani in guerra o, soprattutto, di vedove. Erano quindi donne che “sapevano piangere bene” non solo per abilità tecnica, ma per aver patito loro stesse un grande dolore. La ritualità del lamento rispondeva all’esigenza di elaborare culturalmente il lutto in una dimensione collettiva, esigenza che, con le trasformazioni sociali che si sono susseguite, è venuta sempre meno, fino ad assistere oggi a una vera e propria assenza di manifestazioni collettive di cordoglio (eccezion fatta per le morti celebri) in cui il lutto viene vissuto quasi esclusivamente in una dimensione soggettiva e individuale.
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