Luglio 1943: fu un fiorentino l'ultimo difensore di Palermo
Luglio 1943: fu un fiorentino l'ultimo difensore di Palermo
Testo e foto di Giovanni Curatola
Che folle plaudenti di siciliani nell'estate 1943, e successivamente di italiani di altre regioni via via "liberate" dagli anglo-americani, si gettassero ai piedi dei loro carri armati e delle loro camionette per raccogliere cioccolata, caramelle e chewing-gum gettati loro, è storia alquanto nota. Col senno di poi, a mentre fredda e soprattutto a stomaco pieno, rivedendo comodamente dal proprio divano quei filmati, quelle foto o riascoltando quelle testimonianze, si può disquisire all'infinito sui concetti di dittatura o di democrazia che si prendende animassero quelle folle. Concetti tuttavia, in ossequio al famoso detto "Primum vivere, deinde filosofare", in loro assai più estranei di quanto lo fosse il concreto bisogno di pace, pane e serenità. Non per il libero mercato, il suffragio universale, o il sistema elettorale proporzionale o maggioritario esultavano in quel frangente quegli italiani. L'uso "politico" della storia, accettabile benché non sempre condivisibile, non può prescindere dalle sue reali e concrete impellenze. Esausti da anni di bombe, cannoneggiamenti, devastazioni, lutti e fame, solo una cosa principalmente chiedeva quella gente: che cessassero quei bombardamenti dal cielo che quotidianamente avevano fin lì minacciato sia le vite proprie e dei propri familiari che le loro case e i i loro averi. Che non si combattesse più. Insomma, la fine della guerra. Comunque e a qualunque costo. E l'arrivo degli anglo-americani questo significava. Amen. Se anziché quest'ultimi, a portare la pace, le sigarette e le caramelle fossero stati i russi, i nibelunghi, gli antichi egizi o gli eschimesi, per loro sarebbe cambiato poco. Almeno nell'immediato, dove impellente era continuare a "vivere". Per "filosofare" (su fascismo, antifascismo, libertà, democrazia, monarchia, repubblica, destra, sinistra, politica, sindacati o gioco del lotto) ci sarebbe poi stato tempo...
Ciò premesso, l'80° anniversario dell'arrivo degli angloamericani a Palermo - che ricorre in questi giorni - vide si le scene sopra citate, in una sorta di anteprima di ciò che si ripeterà fino all'aprile di 2 anni dopo lungo lo "stivale" via via "liberato", ma anche il gesto di un uomo che non cambiò di un millimetro il corso di quegli eventi bellici ma il cui estremo valore e il grande coraggio meritano di essere preservati dall'oblio. Dunque, i fatti: è giovedì 22 luglio 1943 mattina. Una colonna di carri armati americani della 2° divisione corazzata e soldati della 3° divisione fanteria avanzano lentamente, nella polvere e sotto un sole cocente, lungo la strada sconnessa, l’unica ai tempi, che da S.Giuseppe Jato (ove gli americani sono entrati alle 08.30) scende a Palermo dall’entroterra. Posto a cavallo delle montagne che circondano la Conca d’Oro, il Passo di Portella della Paglia è un percorso obbligato per chi percorre questa strada. Dal punto di vista militare, è quello che si presta meglio di tutti alla difesa: domina tutta la valle e la carreggiata è talmente stretta da costringere qualsiasi autocolonna a procedere in fila indiana, così da inchiodarne i mezzi di testa e renderla un facile bersaglio. Ed è difatti lì, alla Portella, che alle 09.15 tuona improvvisamente un colpo di cannone. Centra in pieno il primo carro della colonna, che blocca così, nella strada angusta, tutti gli altri mezzi al seguito. Bloccati ed esposti al fuoco nemico. La strada piccola non consente ulteriori spazi di manovra. Gli americani possono solo rispondere al fuoco alla meglio, sparando contro la postazione del cannone italiano, sulla sommità dell’altura che domina la valle. Patton (il comandante VII° Armata USA) è furente: questo contrattempo, con le sue truppe ferme, non gli fa rispettare la sua tabella di marcia. Da lassù, intanto, il cannone italiano non dà tregua. E’ un pezzo anticarro da montagna, manovrato da un piccolo manipolo di artiglieri del 25° Rgt. “Asietta” , al comando del sottotenente fiorentino Sergio Barbadoro, di anni 23.
Palermo, alle loro spalle, è ormai persa per l’Asse. Da 2 giorni i soldati italiani o sono già scappati o si preparano a farlo, mentre la popolazione saccheggia depositi e caserme abbandonate. A un certo punto, Barbadoro ordina ai suoi di scendere a valle e scappare per la strada alle loro spalle, ancora libera verso Palermo. Intende risparmiare le loro vite. Sul pezzo anticarro resta lui solo, senza rinforzi, munizioni, né collegamenti col resto del mondo. Sa bene che il suo cannone può solo ritardare l’avanzata nemica di minuti, al massimo un’altra ora o due. Il suo gesto non cambierà le sorti della guerra, eppure si vota a morte sicura. Pazzia? Incoscienza? O semplicemente coscienza? Quella dei grandi uomini che non defezionano dalle prove supreme che la vita affida loro. E' lo stesso sacrificio di Leonida alle Termopoli, di Cambronne a Waterloo, della “Charlemagne” a Berlino. Barbadoro difende una terra che, da italiano, è la sua. E' siciliano, piemontese, pugliese, emiliano o sardo allo stesso modo. Non combatte per il fascismo (non è una camicia nera) ma per il suo paese. Che è in guerra ed è invaso, amen. Sente di dover restare sul posto, costi quel che costi. C'è in lui timore (per l’inevitabile morte che si è scelto) e orgoglio (davanti quella possente fila di mostri d'acciaio che, da solo, sta inchiodando in quella gola). Lì non conta la superiorità di uomini e mezzi, ma solo il coraggio individuale. E lui ha, al monmento, la meglio: di lì non si passa. Agli americani non resta che chiamare l’appoggio aereo e attendere. Tuttavia, anche il piccolo aereo da ricognizione che prima di mezzogiorno volteggia sulla postazione del sottotenente, può ben poco. Tra quelle alture i passaggi a bassa quota sono quasi impossibili, e i mitragliamenti dal cielo sono inevitabilmente imprecisi. Agli americani, imbullonati inermi sotto il fuoco di Barbadoro che fa anche morti e feriti, saltano letteralmente i nervi.
L’intricata matassa viene superata quando, montato a fatica su uno dei camion cingolati di testa della colonna, un potente cannone d’assalto fa tremare il costone dov’è appollaiato Barbadoro, frammentando pezzi di roccia che cadono in strada. Un altro colpo, poi il terzo, fino a 9. Quindi, un bruciare di fiamme e un’enorme nube di polvere e fumo. Ore 12.15: la resistenza è finalmente spezzata. I soldati di Patton possono riprendere la loro marcia verso Monreale per poi da lì scendere a Palermo senza più ostacoli. Sergio Barbadoro muore sul proprio pezzo, esattamente come una vecchia canzoncina dei tempi della guerra d’Etiopia: “Ma la mitragliatrice non la lascio / gridò ferito il legionario al Passo. / Colava sangue sul conteso sasso, / il costato che a Cristo somigliò. / Ma la mitragliatrice non la lascio / e l'arma bella a un tratto lo lasciò…” Certe azioni sembrano favole, o scene da film, ma per questo giovane fiorentino sono state 3 ore di autentico eroismo. Da solo contro un’autocolonna americana! Due anni dopo la fine della guerra, il padre scenderà in Sicilia per recuperarne i resti. Li troverà, su accidentale confidenza del vecchio custode del cimitero di S.Giuseppe Jato, in una piccola fossa attigua all'edificio. Dalla tasca del pantalone lacerato del figlio, recuperò un coltellino e una piccola tabacchiera. Oggi l’ultimo difensore di Palermo riposa a Roma, al Verano, mentre alla Portella di Paglia, nel punto della vecchia strada dove rotolò il suo corpo, un freddo cippo e una croce ricordano l’evento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA www.ilgiornaledelricordo.it