Quel grande antifascista che fu Benito Mussolini5/10/2019
Quel grande antifascista che fu Benito Mussolini5/10/2019
di Giovanni Curatola
Etichettiamo per un attimo, come nella cultura dominante si è ormai cristallizzato, i fascisti del ventennio e della RSI unicamente come un blocco di violenti e sopraffattori, pur sapendo di forzare di parecchio la realtà storica a discapito delle diversità sociali e ideologiche interne al Fascio e facendo torto a quanti (e furono davvero tanti) sposarono la causa fascista in buona e disinteressatissima fede per cooperare onestamente alle fortune del paese, senza far male a una mosca né prendere un soldo in più del giusto.
Consideriamo poi, sempre in ossequio a quanto sbrigativamente e superficialmente si insegna a scuola, che tale violenza nera (nata nel primo dopoguerra in risposta a quella rossa) non fu solo una componente estrema, per giunta minoritaria, del movimento che sotto diverse forme dominò la scena italiana dal 1919 al 1945. Pigliamo invece la parte per l'intero e consideriamola caratteristica di tutto il fascismo tout court.
Così riducendo ed ancorando la storia in camicia nera a quanto sopra, ne consegue, secondo il più matematico sillogismo aristotelico e alla luce dei fatti reali che il più grande antifascista italiano fu proprio Benito Mussolini. Il quale combatté il fascismo più estremista e violento assai più di quanto gli esuli antifascisti dall'estero o le brigate partigiane abbiano mai potuto e saputo fare. Paradossale, ma ineccepibile.
Il rapporto conflittuale del capo del fascismo con la sua corrente più intransigente, che a più riprese gli ostacolò i piani indirizzando la storia su binari diversi da quelli previsti, non è affatto un mistero. Ma il fascismo – si dirà – non fu una creazione di Mussolini? Pacifico. Dunque, perché non ritenerlo complice fino in fondo, anziché vittima, dello stesso mostro che aveva creato? Il ragionamento non farebbe una grinza. Se però, allo stesso modo, prendessimo per buono il ragionamento che vorrebbe il Papa diretto colpevole di pedofilia per qualsiasi pretonzolo a lui sconosciuto, che magari a migliaia di chilometri dl Vaticano, ha abusato di un minorenne. O se Agnelli o De Laurentis (patron rispettivamente di Juventus e Napoli) debbano finire in gattabuia per qualche violenza commessa in stadi lontani da balordi tifosi della squadra che dirigono...
Tornando a Mussolini, ricorriamo a un passo della “Storia d’Italia” di Montanelli-Cervi relativo al dopo Marcia su Roma. Già a quel tempo, erano all’ordine del giorno gli screzi tra il futuro Duce e gli squadristi più manganellatori, che più che a lui obbedivano ai ras locali: Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, Arpinati a Bologna, Caradonna in Puglia, e così via, in uno scenario talmente variegato che solo il carisma di Mussolini tratteneva spesso dall’aperta anarchia.“Il paese, nella sua stragrande maggioranza, aveva accettato il fatto compiuto (Mussolini a capo del governo) con un respiro di sollievo. Era stanco, 3 anni di guerra civile gli avevano ispirato un solo desiderio: l’ordine. E il fascismo lo prometteva. Della libertà, visto l’uso che in questi 3 anni se n’era fatto, si curava poco. E, del resto, Mussolini prometteva anche quella. Un fatto però va subito rilevato: la fiducia andava a Mussolini, non al fascismo. Per essere più esatti: andava a Mussolini in quanto “domatore” del fascismo”. “Finalmente – dirà nell’occasione più d’un antifascista alle squadre in camicia nera - è venuto il castigamatti che metterà a posto anche voi”. Si, perché in quei giorni “il mito di Mussolini nacque non tra i fascisti, ma contro i fascisti”. Lo condivise anche la Chiesa e la classe dirigente, e non soltanto quella di destra. Il liberale Giolitti esortò i suoi a non ostacolare Mussolini che “ha tratto il paese dal fosso”. Stessa musica venne dai popolari di De Gasperi, dal radicale Nitti (“Bisogna che l’esperimento fascista si compia indisturbato. Nessuna opposizione deve venire da parte nostra”) e perfino dal comunista Amendola, che si augurava pubblicamente che Mussolini spazzasse via le “vecchie mummie e canaglie della vecchia classe politica”. Quest’ultima sapeva bene di aver fallito ogni suo compito, e di essere caduta di fronte all’opinione pubblica nel più totale discredito. (“Non contro la forza pubblica marcia il fascismo – si leggeva d’altronde nel proclama della Marcia su Roma - ma contro una classe politica di imbelli e deficenti che non ha saputo dare in 4 anni un governo alla nazione”).
In simili condizioni. Mussolini era visto da quasi tutte le angolature poliotiche come l’uomo dell’emergenza, l’unico dotato di prestigio ancora intatto capace di pacificare il paese. In simile coralità, gli unici a far stecca erano proprio i fascisti. Così come nei mesi precedenti gli squadristi più accesi e intransigenti avevano mandato a monte, nel sangue, il “patto di pacificazione” che Mussolini aveva promosso e concluso coi suoi vecchi compagni socialisti, nel timore adesso che il loro capo si lasciasse catturare e dunque ammorbidire dal compito della normalizzazione del paese che gli era stata affidata, adesso non pochi squadristi ripresero le loro ondate di violenze e bastonature. L’uccisione di Don Minzoni, a Ferrara, fu il caso più emblematico di questa nuova ondata di violenza che in quei giorni fece una cinquantina di vittime e che rischiava di mettere in pericolo già sul nascere l’operato di Mussolini. Questi, reagì con una mossa rivelatasi vincente: creò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Che non fu, come erroneamente si è voluto far credere, un esercito personale da lui voluto per rafforzare il suo potere, bensì una misura necessaria e intelligente per venire a capo della riottosità e della resistenza delle squadre, quindi più contro che a favore di esse. Controllati, inquadrati e disciplinati nei ranghi della Milizia, ma soprattutto vincolati al giuramento al Re (che Mussolini pretese, parimenti a quello a lui stesso), le Camicie Nere più scalmanate dovettero così rininciare alla propria violenta autonomia d’azione e ai loro abusi, mettendo a costruttivo servizio del paese la propria indole turbolenta.
La seconda fase acuta del perenne conflitto tra fascismo più intransigente e il “pompiere” Mussolini si ebbe nel 1924, allorché il deputato socialista Matteotti fu fatto fuori dalla squadra di Dumini. Che Mussolini non fosse il mandante di tale gesto è ormai un fatto coralmente accettato da ogni storico, così come pure acclarato è che non di un “favore” dello squadrismo più estremista al suo capo si trattò, ma al contrario di un vero e proprio sgarbo (“Mi hanno gettato tra le gambe un cadavere che mi impedisce di camminare” dirà il Mussolini avvilito di quei giorni, che dovrà giocoforza assumersi pubblicamente la responsabilità morale e politica dell'accaduto e della situazione che stava scappandogli di mano: "Se il fascismo è stato solo olio di ricino e manganello, e non invece la passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa..."
La fine di quel 1924 sembrò già decretare la fine del fascismo: in molti strapparono la tessera del Partito, che in Parlamento con la sedizione dell’Aventino ad opera delle sinistre vacillò non poco. A far superare la crisi fu l’out out posto dai consoli della Milizia al loro capo: se Mussolini avesse ceduto, non solo il fascismo si sarebbe nuovamente frammentato in una miriade di squadre più o meno violente e incontrollate, ma soprattutto il paese sarebbe nuovamente sprofondato in quel caos e in quella paralisi da cui Mussolini stava faticosamente facendolo uscire. Col beneplacito del Re, dell’opinione pubblica e della classe industriale italiana, il fascismo divenne dunque dittatura, e il suo capo legittimato ancor di più al suo posto. “Signori! – dirà alla Camera il 3 gennaio 1925, data comunemente indicata come l’inizio del regime fascista vero e proprio - Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo, ma se mettessi la centesima parte dell'energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora…! Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte… L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi gliela daremo! Con l'amore se possibile, con la forza, se necessario...”.
Seguiranno 18 anni di quasi unanime consenso al regime, cementato da costanti - e impressionanti per l’epoca - successi italiani in ogni campo (militare, economico, sociale, tecnologico, sportivo, industriale, architettonico, agricolo, dei trasporti, in politica internazionale, ecc.) che convoglieranno in un autentico orgoglio nazional-popolare che il nostro paese non aveva mai provato prima né proverà più dopo, ogni tensione sociale e pure ogni risentimento interno ai ranghi fascisti.
Infine, il Mussolini di Salò. Seppelliti l’Italia e il suo regime sotto le bombe anglo-americane, in quella Repubblica Sociale nata per salvare il salvabile dopo l’8 settembre Mussolini si troverà attorniato da fascisti di ogni tipo: vecchi e nuovi, moderati ed estremisti, aperti ad italiani di altra fazione ed intrasnsigenti, fascisti filo-borghesi di “destra” e filo-sociali di “sinistra” (il vero indirizzo che Mussolini voleva dare alla sua Repubblica), intellettuali e marmaglia, onesti e criminali, idealisti e opportunisti, vigliacchi e coraggiosi, filo-tedeschi e non, filo-monarchici (ancora ce n’erano molti dopo l’8 settembre) e non. Insomma, tutti “pezzi” di fascismo diversi e spesso anche contrastanti, che ancora una volta solo l’ascendente del loro capo teneva insieme. E anche a Salò, tornò del vecchio e del nuovo rancore verso un capo che, come nel passato, impediva di colpire o punire gli avversari come duramente i suoi accoliti più estremisti avrebbero voluto.
Anche lì, nel dramma di una guerra civile inserita nel più generale dramma della guerra mondiale, il dito del rigore Mussolini lo puntò più contro i suoi che contro gli avversari. Parlando al Lirico di Milano nel dicembre 1944 (suo ultimo discorso pubblico) dirà a proposito di eccessi, violenze e uccisioni extra-legge e furti di beni personali: “Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del Partito, merita doppia condanna. Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito sia veramente un organismo di assoluta purezza politica…”. Partito che, a dispetto delle sue intenzioni, puro lo fu solo in minima parte. Sarà chi ha “fatto chiasso”, dando sfogo ai suoi bassi istinti, facendo parlare le armi contravvenendo alle regole militari, a passare ahimé alla storia, trascinando con sé nel giudizio negativo anche la gente moderata e perbene della propria fazione. E finendo con l'associare lo stesso Duce a quella stessa violenza estrema dei "suoi" che combatté e cercò di limitare fino all'ultimo, come i provvedimenti contro qualche eccesso della Legione "Muti" e di alcune Brigate Nere , lo scioglimento della banda Koch che terrorizzava Milano, la scelta di federali coraggiosi e moderati (Resega a Milano, Capelli a Torino, Facchini a Bologna, Ghisellini a Ferrara, Capanni a Forlì, tutti poi assassinati da mano rossa) che mettessero freno alla teppaglia "nera" che stava imperversando sotto lo scudo tedesco.
Così pure etichette frettolose e ingenerose saranno affibiate in ambito resistenziale, dove l’attività sanguinaria della componente comunista monopolizzerà, con le proprie vigliaccate e i propri crimini, una Resistenza dove pure i cattolici della “Fiamme verdi” ed altre minoranze più moderate scrissero pagine forse storicamente meno incisive ma moralmente assai più edificanti e degne di rispetto di quelle che scrissero i“rossi”.
Scriverà lo scrittore svizzero Paul Gentizon nel 1945: "Tutto quello che è stato il fascismo, anche i suoi lati peggiori, è consegnato alla storia. Ma se c'e un nome che resterà immacolato nella tragedia di questa guerra, sarà quello di Mussolini". Riguardo cui, per chiudere, forse il più lucido giornalista italiano del '900 farà a posteriori questa riflessione:"...Resterebbe da sapere con che animo Mussolini s'investì nella parte di dittatore. Se gli sforzi che aveva fatto per evitarla erano stati solo un giuoco per dimostrare che non era lui a volerla, ma gli eventi ad imporgliela, bisogna riconoscere che come giocatore sapeva il fatto suo.“ (Indro Montanelli)
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