di Gaia Dallera Ferrario
In mostra, fino al 21 dicembre presso la Fondazione Marconi di Milano, la mostra Giuseppe Uncini. La conquista dell’ombra.
L’esposizione ha presentato il lavoro dell’artista tra il 1968 e il 1977 al fine di documentare l’evoluzione della lunga e approfondita indagine di Uncini sul tema delle ombre. Punto di partenza è la mostra, intitolata appunto “Ombre”, che ebbe luogo nel 1976 allo Studio Marconi e per la quale l’artista realizza Grande parete Studio Marconi MT 6, espressamente progettata per la galleria milanese. Quest’opera rientra nel periodo in cui Uncini decide di spostare la sua attenzione dalla “costruzione di oggetti” alla “costruzione dell’ombra”, dalla forma reale dell’oggetto costruito, alla sua forma virtuale. In questa nuova ottica egli trasforma ciò che è da sempre percepito come ambiguo e labile in un elemento sostanziale dell’opera, qualcosa di stabile, visibilmente e tattilmente concreto. Luce e ombra vengono così poste allo stesso livello di valore e considerate “materie” alla stessa stregua, permettendo una nuova e inedita lettura dell’opera. Questa scoperta, motivo dominante della sua ricerca fino agli anni Ottanta, lo porta anche a riflettere sulle antinomie luce-ombra, pieno-vuoto, presenza-assenza. È dunque lo spazio a farsi materia dell’atto costruttivo dell’artista e non esiste più distinzione tra il fare pittura e il fare scultura.
La riflessione artistica di Uncini è particolarmente interessante se collocata nel quadro generale dell’arte italiana negli anni ’70. Inquesto periodo vi era infatti grande fermento, ed un affollato gruppo di artisti si affacciava al successo che poi avrebbero mantenuto per anni: dopo Mario Schifano e la Scuola di Piazza del Popolo, si stavano imponendo Pino Pascali (deceduto prematuramente nel 1968), Jannis Kounellis e stava per apparire sulla scena Gino De Dominicis.
Mentre a Milano, oltre a Piero Manzoni che aveva già compiuto il suo ciclo, operavano Enrico Castellani e Luciano Fabro. A Torino invece stava esplodendo l’Arte povera con Germano Celant, implacabile timoniere di un gruppo formato da Giovanni Anselmo, Mario Merz, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Alighiero Boetti, Giulio Paolini, con propaggini a Roma (Pascali, Ceroli, Kounellis) e Bologna (Pier Paolo Calzolari). La situazione artistica italiana di quegli anni era tra le più vivaci in Europa, tant’è che la scena europea manifestava un reale interesse nel monitorare alcuni artisti e gallerie italiane.
Tra le contemporanee esperienze quella di Uncini è sicuramente molto interessante, per autenticità e profondità.
I materiali da lui usati, nel periodo preso in analisi dalla Fondazione Marconi, tengono senz’altro conto delle esperienze dell’Arte Povera - che aprì un importante capitolo sul riscatto di materiali naturali, e di uso comune, per la produzione di arte - unite a quelle dell’Arte Concettuale, il cui obiettivo era far riflettere lo spettatore su tematiche complesse, attraverso giochi logici e spazio temporali, spesso di una semplicità disarmante.
Quella proposta da Uncini è, in definitiva, una riflessione sulle ombre e sulle luci, l’eterno contrasto che connota il nostro spazio ed il nostro tempo, in un infinito ed inesauribile dialogo.
“L’ombra, questa fuggevole essenza, questa negatività del segno, che troppo spesso viene ignorata o passata sotto silenzio, che quasi sempre vale solo come fattore passivo, di assenza, tutt’al più di completamento dell’indagine – doveva invece costituire, a un certo punto, il centro delle indagini dell’artista; non già come artificio per una resa prospettica o naturalistica, ma come ‘messa in luce’ (non solo metaforicamente) di un elemento sostanziale dell’opera.” (G. Dorfles, 1976)
Gaia Dallera Ferrario | www.gaiafe.com
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