Garibaldi, Alleati, mafia e la regìa inglese20/1/2020
Garibaldi, Alleati, mafia e la regìa inglese20/1/2020
di Giovanni Curatola
Comun denominatore degli sbarchi in Sicilia dei Mille di Garibaldi (maggio 1860) e delle armate angloamericane 83 anni dopo (luglio 1943) fu il consistente apporto che mafia e massoneria diedero alle due imprese, e che andò in una triplice direzione: 1) un intenso, accurato e clandestino lavoro preparatorio sui ceti popolari, invogliati con le buone o con le cattive a dar man forte agli sbarcanti agevolandone quanto più velocemente l’occupazione dell’isola; 2) una minuziosa attività di sabotaggio delle istallazioni militari e rimozione di ostacoli di altra natura che potessero render vita difficile ai “liberatori”; 3) un’opera di corruzione morale ed economica su larga scala (assai più presente per la verità nel 1860 che nel 1943) che garantì a tanti alti ufficiali di parte avversa danaro o un automatico travaso nel futuro esercito dei vincitori, con avanzamento di grado o pari stipendio, in cambio di mancata opposizione militare. Insomma, in cambio di un tradimento vero e proprio, a cui soprattutto molti capi militari borbonici abboccarono in massa. Nel 1943 la forza militare anglo-americana era talmente imponente da non necessitare il ricorso alla corruzione generalizzata. Ma alla mafia, si. E i “liberatori” rimisero non solo in libertà, ma anche nel futuro ruolo di sindaci o in altri delicati posti di comando, quella marmaglia mafiosa di cui il fascismo si era precedentemente sbarazzato, ripulendo l’isola.
Altro comun denominatore delle due “imprese”, che per quanto sopra esposto ebbero di eroico assai meno di quanto si lasci ancora credere, è il curioso e casuale fattore geografico che vide Palermo occupata (o liberata) più o meno 2 settimane lo sbarco, non dal mare o dalle sue direttrici costiere (ovest lato Trapani, est lato Messina). L’entrata a Palermo avvenne alle spalle, dalle strade più impervie e accidentate dell’entroterra, sbucando dai monti che la circondano a semicerchio, dove l’impatto della vista della città, della sua fertile Conca d’Oro coi suoi immensi (una volta) limoneti, del mare sormontato dalla figura inconfondibile del Monte Pellegrino sullo sfondo, non lascia oggi né lasciò allora soldati garibaldini e americani certo indifferenti.
E se per la VII° Armata USA del generale Patton, vinta a Portella della Paglia la resistenza degli ultimi difensori di Palermo (sergente Barbadoro e un suo piccolo manipolo), la discesa in città avvenne dolce tranquilla da Monreale, 83 anni prima per i garibaldini avvenne da Gibilrossa.
Già a più riprese Garibaldi aveva tentato nei giorni precedenti al fatidico 27 maggio (1860) l’entrata in città, ma era stato in entrambi i casi messo in fuga (a Parco, oggi Altofonte, e a Corleone) dalle truppe borboniche. La letteratura risorgimentale, per non incrinarne il mito, ha sempre sostenuto che la sua fu in realtà solo una finta ritirata, attuata strategicamente per attirare nell’entroterra le truppe borboniche per sguarnire così il più possibile la città. Più realisticamente, e come confermato dalla stessa tentazione di Garibaldi di annullare l’intera spedizione, furono batoste belle e buone.
A rimettere le cose a posto, vigilando che tutto avvenisse secondo i piani stabiliti a Londra e a Torino, furono gli inglesi (alla cui protezione navale si dovette giorni prima lo sbarco dei Mille a Marsala), fautori e favorevoli (per proprio tornaconto, s’intende) al disegno unitario dei Savoia. Anticipando di quasi un secolo lo stesso identico copione che li vedrà poi alla fine della II° guerra mondiale orchestrare nell’ombra la morte di Mussolini e il recupero dei suoi scottanti incartamenti, lasciando che la parte degli eroi e le conseguenti luci della ribalta se l’attribuissero i partigiani. Così in questo fine maggio 1860 consentirono dietro le quinte il buon esito della spedizione garibaldina lasciandone i meriti, per la storia ufficiale, ai Mille e ai “picciotti” delle campagne, insorti e inquadrati ad hoc in bande per dar man forte a Garibaldi e fargli “prendere” Palermo.
Scriverà lo storico Denis Mack Smith a tal proposito: “A Palermo tutto era tranquillo. Nessuno circolava per le strade, se non i soldati. Lanza (capo militare borbonico) continua a ?ngere di essere un duro, dicendo che, se in città si fosse veri?cata la rivoluzione, avrebbe ordinato di sparare sui rivoltosi coi cannoni…. Come fa a minacciare ferro e fuoco contro la città se ?no a quel momento Garibaldi è stato tenuto a bada e può essere scon?tto de?nitivamente?... La città ha già dimostrato di non fare lega con gli unitari, e di non credere agli ideali delle squadre che avevano provocato disordini. E’ proprio il Lanza che impedisce di combattere alle truppe a propria disposizione, e lascia scoperte e incustodite le porte della città che guardano nella direzione dell’Armata di Garibaldi (Porta Termini e Porta S. Antonino)… Frattanto è giunto il Colonnello Eber, gentiluomo ungherese… Per Garibaldi, l’aiuto di Eber sarà prezioso e necessario. E’ tutto previsto e calcolato dal Gabinetto Inglese. Eber, esperto militare, si rese subito conto dei punti deboli del dispositivo di difesa della guarnigione. Contribuì molto alla decisione (di Garibaldi) di entrare a Palermo da Porta Termini… La gente di Sicilia, il popolo vero e proprio, non gradisce i garibaldini e tantomeno li vuole ospiti, nonostante gli ordini impartiti dalla massoneria e dalla ma?a del luogo di volta in volta interessato…”.
Lo storico Luigi Natoli, accusato dagli anti-garibaldini di manipolare o inventarsi qualsiasi episodio che potesse essere utile alla mitologia risorgimentale, racconta che Garibaldi trovò Marineo in piena rivolta. “Ma contro chi – puntualizza Giuseppe Scianò - se le guarnigioni dell’esercito borbonico erano state tutte ritirate? A mezzanotte, i Garibaldini entrano a Misilmeri. L’ordine dei massoni del paese e dei ?lounitari, ma?osi e non, era che ad ogni ?nestra vi fosse un lume. Visto dall’esterno, quindi, il paese nella notte brillava. Ma chi si aspettava chissà quali festeggiamenti rimarrà deluso. In paese non vi era casa che non avesse un lume ad ogni ?nestra, ma gente per le vie poca. Di più un agiografo non può dire. E aggiunge che Bixio era d’umore nero: “Non che il Bixio fosse un cuore allegro, ma riteniamo che la fredda accoglienza di Misilmeri abbia in?uito un bel po’ sul suo umore. E che i misilmeresi non abbiano mai amato i Garibaldini”. Poco distante da Misilmeri, intanto (a Gibilrossa) si radunano i “picciotti” di Giuseppe La Masa, nei giorni precedenti “sguinzagliato alla ricerca di agganci e di picciotti di ma?a. Pare che ne abbia avuto, con le mediazioni ma?ose, qualcosa come 4.000. Tutti lì, pronti ad entrare a Palermo. E’ bene, a questo punto, soffermarci un po’ sulle squadre e sui picciotti in attesa di vederli entrare in massa a Palermo: picciotti di ma?a e squadre a pagamento. Tutti malfattori e camorristi? Sembra proprio di sì!… Rare le eccezioni”. Forte di quanto ammesso dallo storico unitario Brancaccio (“Si andava giornalmente nelle vicine compagne per arruolare sotto la bandiera tricolore contadini animosi. Era dura necessità reclutare gente di ogni risma: costretti da forza maggiore, e non potendosi essere arbitri della scelta, si doveva accogliere tutti coloro che dicevano essere pronti a combattere… Volersi però sostenere che i gregari componenti le squadriglie rivoluzionarie erano tutti malfattori e camorristi non è esatto. Uomini tristi ce n’erano purtroppo, ma gli onesti non facevano difetto…”), Scianò conclude che, pur non dovendo generalizzare, ciò dimostra ancora una volta che le bande di “picciotti” “non erano affatto composte da volontari idealisti, bensì da gente pagata, assoldata. Ed era anche gente di ma?a, come si lascia sfuggire il Brancaccio, usando il termine camorra, allora in voga (il termine ma?a diventerà di uso comune soltanto dopo l’annessione della Sicilia, e dopo che l’onorata società avrà fatto un salto di qualità, grazie al proprio inserimento nell’epopea risorgimentale). Altresì, il bluff del valore delle squadre è stato avallato dalla precipitosa decisione borbonica di fare acquartierare (o meglio, ritirare) le forze armate presenti in Sicilia nelle 3 grandi città: Palermo, Messina e Catania. Lo scopo dichiarato era di contrastare eventuali ribellioni delle popolazioni, lo scopo reale rimane invece attuare il tradimento necessario ad agevolare l’impresa garibaldina. Di fatto, si regalavano infatti le campagne e i centri minori alla ma?a e alle loro bande di “picciotti”, i quali “vengono utilizzati nell’ambito del disegno anglo-piemontese per dimostrare che in Sicilia divampa la rivoluzione unitaria ?lo-sabauda. E che l’invasione garibaldina, pertanto, è voluta e legittimata da questa rivoluzione”. Pare che Francesco Crispi, cervello dell’armata garibaldina, nel foglio d’ordini del 25 maggio 1860 destinato al colonnello garibaldino Orsini, scrisse di serrare i ranghi dei garibaldini
“af?nché potessimo liberarci dalle squadre”. “Insomma – riprende Scianò - le squadre fanno schifo ?nanco ai Garibaldini. Ma saranno utilizzate ancora per occupare Palermo… nonché per fare la clack al dittatore fra una rapina e l’altra, un saccheggio e l’altro… Il decreto dello scioglimento delle squadre sarà emanato soltanto il 14 giugno... ma i picciotti se ne andranno? No. La ma?a resta. E farà tanta carriera. Le bande continueranno a moltiplicarsi, scorrazzare e delinquere in ogni angolo della Sicilia, rendendo impossibile qualsiasi tipo di resistenza popolare all’avanzata garibaldina”.
Infine, Denis Mack Smith: “Il crollo della legge e dell’ordine diede il via libera alle bande di tipo ma?oso, sempre pronte ad appro?ttare di un momento del genere per estendere la loro autorità. Non è improbabile che alcuni capi banda avessero dei genuini scopi politici, ma possiamo tranquillamente immaginare che i moventi principali fossero la prospettiva di paga e bottino, l’occasione di distruggere un gruppo rivale, bruciare gli archivi della polizia, liberare i loro amici dalla prigione e dare al proprio nome un aureola di terrore e di rispetto in una zona più vasta possibile. Questi ma?osi non erano semplici criminali. Il crimine era per essi solo un mezzo per ottenere denaro e potere… e per questo strano fatto si aiutò la Sicilia a dare un contributo decisivo e in parte inconsapevole alla causa dell’uni?cazione italiana”.
Garibaldi arrivò dunque a Misilmeri, proveniente da Marineo, alla mezzanotte del 25 maggio. Lì La Masa gli aveva promesso 4.000 “picciotti” raccolti per lui. L’indomani mattina, 26 maggio, altra piccola marcia per l’altopiano di Gibilrossa, a ridosso del paese. “Lì – scrisse il filo-unitario Giuseppe Cesare Abba, a seguito dei garibaldini - formicolava il campo dei “picciotti” di La Masa, Erano forse 4.000, ma pochi gli armati almeno di fucili da caccia. Tuttavia davano da sperare che, a tempo opportuno, anche gli armati soltanto di picche avrebbero fatto da bravi. Aveva detto Garibaldi che ogni arma era buona, purchè impugnata da un valoroso. I continentali si frammischiavano a quelle squadre… e osservavano che anche i più rozzi di quei “picciotti” avevano pensieri e sentimenti elevati. Ispidi all’aspetto, erano squisiti dentro come certi frutti. Nel pomeriggio di quel giorno, apparvero lassù alcuni uomini di mare in calzoni bianchi: ufficiali delle navi inglesi ancorate nel porto di Palermo, saliti a visitare quell’accampamento… Diedero per primi anche la notizia che il governo di Napoli aveva chiamato filibustieri Garibaldi e i suoi appena partiti da Quarto, denunciandoli al mondo come pirati. Aggirandosi nell’accampamento, quegli Inglesi avevano portato a Garibaldi i piani delle fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dal nemico alle porte. Intorno alle 16.00 Garibaldi chiamò a sè tutti i suoi maggiori ufficiali e i comandanti di tutte le compagnie. “Grande commozione, grande attesa… Garibaldi aveva fatto due casi: o ritirarsi a Castrogiovanni (Enna) e là in luogo forte attendere che la rivoluzione ingagliardisse e giungessero dal continente altre spedizioni; Oppure gettarsi su Palermo. Si diceva che tutti i Comandanti avevano gridato con entusiasmo: «A Palermo!» e che Bixio aveva aggiunto: «A Palermo o all’inferno!» Allora corse per tutta quella gente un tal fremito, che parve s’animassero fin le rocce. La gran risoluzione era presa: presa in quel punto di Gibilrossa dove fu fatto poi sorgere l’obelisco di marmo che vi si vede biancheggiare dal mare e dai monti, a ricordanza di quell’ora suprema. Lassù fu anche stabilito l’ordine della marcia…”. Garibaldi decise di tentare l’assalto di Palermo dalla Porta Termini, che sapeva meno sguarnita. Ma non potendo adoperare le squadre di La Masa, perché senz’armi o con fucili senza baionetta, mise alla testa della colonna 50 “Cacciatori delle Alpi” condotti dal Tuköry, che “dovevano cadere come ombre addosso alla vedetta nemica. L’avrebbero trovata oltre certe case, a piè di un altissimo pioppo. Bisognava impedire che quei poveri ignoti soldati dessero l’allarme alla guardia del Ponte dell’Ammiraglio” (Abba). Dietro quel drappello, dovevano marciare 500 “picciotti”, poi i carabinieri genovesi e quindi tutte le altre compagnie garibaldine. In coda, avrebbe seguito il grande stormo dei “picciotti”. “Disposte così le cose, tutti quei corpi furono condotti a pigliar il posto loro assegnato, nei pressi del Convento che sorge lassù, per aspettarvi che imbrunisse. I Cacciatori delle Alpi abbandonavano così quei luoghi, dove avevano passato una delle loro giornate più tormentose, sotto un sole feroce, senz’altro riparo che di poveri fichi d’India. E in tutta quella giornata non avevano ricevuto che ognuno un pane e una fetta di carne cruda, che avevano mangiato chi rosolandosela al fuoco sulla punta della baionetta, chi scaldandosela sulle rocce arse dal sole, chi tale e quale. Non erano mesti nè lieti, si incamminavano forse alla morte. Ma se fosse loro riuscito di penetrar nella gran Palermo e pigliarsela, che grido di gloria per tutta l’Italia, che gioia poi poter dire: io v’era!”. Le righe retoriche di Abba continuano poi così: “Intanto che veniva la notte, furono fatte dai comandanti raccomandazioni amichevoli: marciare in silenzio; non badare a rumore che potesse venire da qualsifosse parte; non si lasciassero impaurire dalla cavalleria, se mai ne fosse capitata sui fianchi della colonna. Contro di essa bastava formare i gruppi, giovandosi degli accidenti del terreno, e tirare ai cavalli. Del resto, la fortuna di Garibaldi avrebbe sempre aiutato, e all’alba sarebbero stati in Palermo”.
Appena fu buio, la colonna si mise in marcia e cominciò la discesa. Ai tempi l’ampia strada che oggi sale per agevoli giravolte a Gibilrossa non esisteva. “Non v'era che un sentieraccio giù pel ripidissimo pendìo, dove bisognava camminare con l’olio santo in mano, sull’orlo d’un borro tutto balzi e sfasciume. Eppure, per quella traccia calò senza disgrazie tutto quel mondo”, Garibaldi incluso. Si perse del tempo a riordinare gli uomini ai piedi del monte, quindi la colonna si rimise in marcia lenta e silenziosa. “Ululavano per la campagna a sinistra i cani da lontanissimo; da destra muggiva il mare; non era molto buio; faceva quasi freddo. Nel piano, la via correva fiancheggiata da muriccioli a secco tra oliveti, e a tratti fra case mute e tetre. Da una di quelle case là attorno, veniva un tintinno di pianoforte, e dava una di quelle malinconie che son fatte di dolore, amore, speranza, desideri, un po’ di tutto ciò che è gentile in noi. Chi mai sonava in quell’ora tanto tranquilla, mentre stava per cominciare la musica della morte?”. Per non farsi sorprendere dall’alba, fu fatto incalzare il passo, quindi la colonna sboccò nella strada principale, con l’ordine di tirar avanti stringendosi ai muri degli orti. “I cuori battevano già – prosegue Abba - ma ad un tratto li schiantò un uragano di grida e di fucilate scoppiato alla testa, perchè a un certo punto che si chiama Molino della Scafa (oggi piazza Scaffa), i picciotti, credendo d’essere già alle prime case di Palermo, si misero ad urlare. E molti di essi, presi chi sa per qual cosa dal pànico, si arrestarono, si scomposero, cagionando il rigurgito di tutta la colonna. Accorse Bixio inviperito contro La Masa, accorse Garibaldi che richiamò lui alla calma”;
Infine, l’entrata in città, così dipinta eroicamente dall’Abba: “Garibaldi sapeva bene cosa erano quei prodi; e del resto tutto ciò fu un lampo, perchè pigliata subito la corsa avanti, una corsa impetuosa, serrata, gridata; il meglio della colonna fu di lancio sotto il fuoco dei borbonici che difendevano il Ponte dell’Ammiraglio. In quella prima luce apparvero il profilo a schiena d’asino e i 12 pilastri interrati del ponte, brulicanti d’uomini e d’armi nel fumo, visione da sogno, ma incancellabile anche per chi non sapeva che quel ponte normanno aveva più di 7 secoli sulle sue pietre. Così adunque la sorpresa tanto ben preparata era venuta in parte a mancare, ma quei borbonici che avevano dormito intorno al Ponte, con l’animo sicuro che Garibaldi era in fuga lontano, presi alla baionetta non ressero a lungo, e si ritirarono fuggendo disperati, tanto che invece d’andar a piantarsi dietro a una loro gran barricata oltre il crocicchio di Porta Termini, svoltarono a Sant’Antonino per sottrarsi a quei dannati garibaldini che giungevano di notte a quel modo”.
Convenne a tutti che l’entrata di Garibaldi a Palermo fosse tramandata infarcendola di valore, eroismo e di una cruenta battaglia che (a parte l’assalto al Ponte e i combattimenti lungo il chilometro tra questo e il crocicchio di Porta Termini, dove pure caddero Tuköry, La Mensa, i fratelli Cairoli) non ci fu. Convenne ai Savoia, per la mitologia risorgimentale che stavano scrivendo. Convenne ovviamente ai garibaldini per ammantarsi di gloria. Ma convenne anche e soprattutto ai borbonici per celare il loro tradimento e una resistenza al nemico che in condizioni di preponderante superiorità (20.000 contro 4.000) abbozzarono solo debolmente e simbolicamente. In realtà, non solo gli immancabili registi occulti inglesi erano perfettamente a conoscenza delle mosse di Garibaldi (le avevano concordate assieme su, a Gibilrossa, quel pomeriggio), ma lo erano anche Lanza e i capi borbonici comprati dai Savoia, che sacrificarono solo un loro piccolo manipolo al Ponte dell’Ammiraglio per far poi dirigere il grosso delle proprie truppe, appunto, a S.Antonino, lasciando così Porta Termini aperta ai garibaldini. Forse non è il caso di dirlo ai nostri figli, specie se ancora piccoli, per non incrinare il mito del Risorgimento, ma l’unità nazionale è passata anche da questo. Viva l’Italia.
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