Autunno 1932: la vita nell'Agro Pontino...27/6/2020
Autunno 1932: la vita nell'Agro Pontino...27/6/2020
di Giovanni Curatola
In questa sintesi di un passo di "Canale Mussolini" di Antonio Pennacchi, c'è uno spaccato di vita italiana: il trasferimento nell'Agro Pontino appena strappato alla palude, reso terra fertile e costellato di poderi nuovi di zecca, dei coloni provenienti dal Nord Italia. Per la classe contadina, una rivoluzione. Per loro, l'inizio di una nuova vita:
LA PARTENZA
Fu un esodo. In 30.000 ci caricarono sui treni e ci portarono qui. Sulle tradotte. Un treno al giorno, 10.000 all’anno, facendoci attraversare mezza Italia. Ci concentravano nelle stazioni di partenza (Ferrara, Rovigo, Vicenza, Udine, Treviso, Padova) e poi la sera partivamo. Le case e i paesi li avevamo salutati la mattina; c’erano venuti a prendere con gli autocarri della Milizia, ci avevano aiutato a caricare le nostre robe, i pochi mobili, gli attrezzi, le bestie chi le aveva. Tutto legato. Ogni animale da cortile, chiuso in gabbia. Per tutta la giornata era durato questo viavai di camion dalle nostre case dei più piccoli paesi fino alla stazione. Il “Commissariato per le Migrazioni Interne”, che nei mesi precedenti avevano vagliato le domande e i requisiti delle famiglie che ne avevano fatto richiesta, aveva fissato per ognuno il suo posto sia sul piazzale della stazione che poi, sul treno. E con tutti i vicini sul piazzale, man mano che arrivavano, abbiamo cominciato a fare amicizia. Tutto il giorno passava ai camion a scaricare famiglie, salmerie e vettovaglie sul piazzale; affastellare ogni cosa sull’altra per poi rismontarla e ristivarla dentro il treno. La Milizia in camicia nera faceva rispettare tutto. Vigile e solerte, ma anche comprensiva coi bambini che scappavano correndo, e con le madri e le sorelle grandi che li rincorrevano. A mezzogiorno c’era stata la fila davanti al bancone del Fascio Femminile, che serviva il rancio. Primo e secondo tutto insieme: pastasciutta calda, buona e gratis con un pezzo di carne e un bicchiere di vino o di grappa. A sera, prima della partenza, altro rancio con minestre e tazze di caffellatte caldo, e pane e polenta a volontà. I federali di Rovigo, Vicenza, Udine, Padova e Treviso erano passati nel pomeriggio a dire: “Un giorno sarete proprietari di terre e per ognuno che parte, sappiate che ce ne sono almeno 10, qui, che avrebbero voluto partire al suo posto”. Era vero. In qualche piazzale era anche giunto qualche sacerdote o qualche vescovo per benedire le famiglie in partenza. A sera, la partenza.
IL VIAGGIO
Il treno era una tradotta lunghissima trainata da locomotive a vapore, con carrozze di 3° classe, sedili di legno e sportelli per salire e scendere ogni due sedili. Gli uomini stavano nei vagoni merci, in coda. In quei vagoni c’era tutto ciò che avevamo: attrezzi, carri smontati, tavoli, materassi, credenza, qualche bestia. E gli uomini a guardare tutto, a tenere calmi gli animali, a dargli da bere o un calcio nei fianchi, e poi a fumare o a stendersi sulla paglia, facendo finta di dormire e passandosi la fiasca del vino o della grappa. La tradotta viaggiava tutta la notte. I treni partivano coi gavettini ancora caldi del caffè d’orzo, con la banda del Fascio comunale che suonava “Giovinezza”, con la Milizia, il Fascio Femminile e i ferrovieri a salutare romanamente il convoglio che cominciava a muoversi. Poi, mentre pigliava velocità, le donne si riabbandonavano sui sedili. Solo le ragazze da marito restavano aggrappate al finestrino, attaccate ai fazzolettoni bianchi a salutare i morosi mancati, che non avrebbero più rivisto. Oggi non lo fa più quel “dedèn” il treno, perché i binari sono più lunghi e le saldature più precise, calibrate al laser. Ma allora lo sentivi per tutto il viaggio, ed era un suono dolce e ritmato. Bastava solo chiudere gli occhi, abbandonarsi con le spalle allo schienale e ci si addormentava subito. Dopo mezz’ora infatti non c’era un ragazzino sveglio ed anche qualche grande dormiva, mentre le donne sistemavano ogni cosa e si scambiavano cortesie: «Un tòco de poènta? Un fià de formàio?», e così gli uomini sui vagoni merci. Il treno ogni tanto si fermava nel buio, in fondo alle piccole stazioni, per lasciare la precedenza agli altri treni o fare il pieno d’acqua alle caldaie. Poi ripartiva, ma intanto gli uomini, ancora prima che si fosse fermato del tutto, erano scesi a visitare le proprie donne e i figli nelle carrozze e a scambiarsi saluti e nuove conoscenze per tutto il treno. Tra una ripartenza e l’altra si svegliavano anche i bambini, ed era un avanti e indietro per tutta la tradotta: «Portème anca mì con le bestie». E allora portalo di là con te. Ma poi si stancava: «A vòjo mè mama». E alla stazione successiva riportalo da lei e a giocare con gli altri bambini conosciuti la mattina sul piazzale. E le nonne a raccontare fiabe. Un sacco di bambini che si erano visti per la prima volta su quel treno, hanno litigato e fatto pace tutta notte. Poi sbarcati nei poderi, uno di fianco all’altro, si sono fatti grandi, innamorati, sposati, e hanno litigato e fatto pace tutta la vita.
Bologna… l’Appennino… la Toscana… Firenze… Orvieto… Roma. A Roma cominciava appena ad albeggiare, e qualche donna che sapeva leggere, guardando le insegne dal finestrino diceva eccitata: «Roma! Roma!». Tiburtina, Termini, Casilino, sui binari morti per far passare altri convogli. A quasi giorno la tradotta era ripartita, ma tutti continuavano a sonnecchiare. Torricola… Santa Palomba… Campoleone… In ogni viaggio c’è sempre, all’inizio, la bramosia del nuovo, la fretta d’arrivare. Ma poi si fa strada l’ansia di ciò che t’aspetta, il timore di ciò che non t’aspetti, e la nostalgia di ciò che hai lasciato e la gente che non vedrai mai più.
L’ARRIVO
A un certo punto, “Strìììììì… Giù dalle carrozze! Littoria stazioneee!”. La tradotta arrivava ogni giorno a Littoria alle 07.30 in punto. Perché allora, lo sanno tutti, i treni arrivavano in orario. L’esodo era terminato. La Terra Promessa raggiunta e la Milizia in camicia nera, schierata sul marciapiede del binario 1, era lì a proteggerci nello sbarco ed a guidarci nel prendere possesso del nostro Mar Rosso. La banda suonava “Giovinezza” e lo stuolo di tecnici e fattori dell’O.N.C. era pronto coi camion sul piazzale a caricarci ognuno con le sue robe e scaricarci, famiglia per famiglia, nei poderi assegnati. Ma prima, come alla partenza, sul piazzale della stazione trovammo il Fascio Femminile con pentoloni di caffellatte fumante, fette di polenta abbrustolita, pane bianco a volontà e grappa. Era il Fascio Femminile di qua, naturalmente: impiegate della buona società romana. Sorridevano ai bambini dicendo loro: «Ne vuoi ancora?». C’era freddo, era ottobre inoltrato. Tutti tra settembre e ottobre ci hanno portato qui, pronti a seminare il grano i primi di novembre. Era Littoria Scalo, non Littoria città, che stava sorgendo 8 chilometri più giù. La stazione non era quella di ora. Era più piccola, perché Littoria in origine doveva essere un comune rurale, nulla di più. E anche la stazione doveva essere nient’altro che una stazione di campagna…
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