Italia-Austria: come la spuntammo nel 193424/6/2021

Memoria per Italia-Austria: come la spuntammo nel 1934

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Italia-Austria: come la spuntammo nel 193424/6/2021

di Giovanni Curatola

Sabato 26 giugno 2021 gli ottavi dell’Europeo ripropongono la sfida Italia-Austria. I precedenti pallonari si perdono nella notte dei tempi, quando gli austriaci erano ancora sotto la corona degli Asburgo e il loro stato multietnico si chiamava Impero Austro-Ungarico. Ma se la Prima Guerra Mondiale cambiò politicamente i rapporti italo-austriaci, mutandone radicalmente quelli di forza a nostro vantaggio, sul versante pallonaro l’Austria restava ancora superiore agli Azzurri, massima espressione di quel calcio danubiano che allora dettava legge in Europa. Ed è un’Italia-Austria di quei tempi che qui vogliamo raccontare (un’altra tentazione in tal senso sarebbe quella del 1990 e del gol con cui Schillaci darà il via alle nostre “notti magiche”, ma quella del 1934 è ancor più significativa. E più datata, ossia più a rischio oblio).

Dunque: Mondiali 1934. L’Italia giocava in casa e, dopo aver superato Stati Uniti e Spagna nei turni precedenti, si trovò davanti la fortissima Austria nella semifinale di Milano. Per capire come questa fu affrontata, e vinta, occorre una premessa su Vittorio Pozzo, tecnico di quella Nazionale Azzurra. Pozzo allenava il Torino quando, ai primi del giugno 1915, era partito per la guerra. “Infilò nello zaino un paio di libri sul football (Andrea Schianchi, “Gazzetta dello Sport” 9/11/2018) e promise alla madre: "Ci rivedremo". Una delle prime missioni da tenente, al comando di un battaglione alpino (del 3° reggimento), fu la conquista del Monte Nero, sulle Alpi Giulie. Pozzo guidò i suoi soldati con fermezza e con loro, durante le marce, cantava… Nelle trincee conobbe la durezza della vita e condivise ogni attimo coi soldati, dall’alba al tramonto, ne comprese lo scoramento, li aiutò a superare la depressione e, forse, era pure d’accordo con loro su alcune scellerate tattiche di battaglia. Però era un ufficiale, sapeva che tra superiore e inferiore ci doveva essere sempre una certa distanza e mai si lasciò andare a frasi contro i generali che mandavano allo sbaraglio interi reggimenti… Dopo Caporetto difese il Piave, e infine si lanciò nell’ultimo assalto di Vittorio Veneto… Diventato allenatore della Nazionale, i suoi giocatori li guardò negli occhi esattamente come aveva guardato i suoi soldati, e da loro pretese sempre lo stesso spirito di sacrificio e la stessa dedizione”.

I successi azzurri degli anni ’30 (2 Coppe del Mondo, 2 Coppe Internazionali e un’Olimpiade) saranno figli di ciò che il tenente Pozzo aveva vissuto in guerra, sulle montagne, in mezzo al fuoco incrociato dove “imparò uno stile di vita che trasportò, pari pari, sui campi di calcio. Scrisse sul suo taccuino: "Lavorare in modo chiaro, lineare, schietto, tale da dare al giocatore la sicurezza assoluta dell’onestà e della dirittura di condotta nei suoi riguardi. Dividere col giocatore lavoro, fatica e sacrificio. Comandare con l’esempio. Non abbandonarlo mai. Essere con lui cordiale e gioviale anche, pur mantenendo la distanza che sempre deve intercorrere tra superiore e inferiore”. Concetti appresi in guerra e che gli si erano talmente radicati dentro che nel maggio 1930, alla vigilia della finale della Coppa Internazionale di Budapest fra Ungheria e Italia, “l’allenatore-alpino portò i suoi giocatori a Redipuglia, in Friuli, a visitare l’immenso cimitero militare dove sono sepolti più di 100.000 soldati morti nella Prima Guerra Mondiale. A Meazza e compagni disse: "Quello che hanno fatto i soldati che si trovano sepolti qui è ben altra cosa rispetto a quello che dovremo fare noi. Ma il comune sentire dell’amore per l’Italia deve essere d’ispirazione per tutti noi". Morale: l’Italia rifilerà un secco 5-0 agli avversari e Meazza realizzerà 3 reti. Era nata l’era d’oro della Nazionale azzurra, che durerà per tutti gli anni ‘30. Pozzo e i suoi “Mussolini boy’s” incanteranno il mondo. Piaccia o non piaccia, quegli 8 anni resteranno il momento più alto e irripetibile nella storia del nostro calcio nazionale.

La leggenda che vuole che negli spogliatoi, prima delle partite, Pozzo facesse sempre cantare ai suoi ragazzi le strofe degli alpini, è falsa, ma il suo modo di condurre il gruppo fu decisamente militaresco. Fu lui a inventare i ritiri, per meglio amalgamare la squadra prima dei grandi appuntamenti internazionali ("Siamo qui per conoscerci meglio, meglio, e ancora meglio..."), e a chiamare caserme le sedi dei ritiri azzurri. Il calcio, per lui, era una guerra in tempo di pace. Diceva sempre che l’allenatore portava la sua squadra in campo proprio come un ufficiale porta i suoi uomini in battaglia. Li strigliava ma li difendeva sempre, definendoli in pubblico “i giuocatori nostri”. Era insomma la sua figura quella di un padre carismatico, esigente ma protettivo. Consigliava agli scapoli di sposarsi per mettere la testa a posto e condurre così una vita sana e senza vizi, sesso incluso. Le lettere in entrata o in uscita dai ritiri passavano tutte dal suo tavolo: "Per ogni questione, fisica, caratteriale, di famiglia, lavoro, donne, ecc. qui avete un solo interlocutore: me". Una figura così invadente oggi sarebbe improponibile, ma a parte qualche inevitabile mugugno i "giuocatori suoi" l'accettavano generalmente di buon grado, tanto erano seducenti le sue parole e riconosciuta ferma ma giusta la sua guida. 

E quando, ai Mondiali del 1938 a Marsiglia, tutto sarà organizzato da francesi e antifascisti italiani per subissare l’Italia di fischi e intimidazioni, Pozzo ordinerà ai suoi prima l’attenti, poi due volte il saluto romano: gesto che sfiderà e avrà la meglio del clima ostile di tutto lo stadio. Era questo Pozzo, intransigente e tutto d’un pezzo. Anche con gli stessi alti papaveri del partito fascista, se era il caso, da cui non tollerava alcuna ingerenza. Quando, prima dei Mondiali del '34, reclutò Attilio Ferraris, fra lo stupore dello stesso e qualche critica dell'opinione pubblica e di qualche gerarca fascista per la scarsa forma del giocatore, lo andò a pescare personalmente in una sala biliardo. Ferraris rispose lusingato ma gli fece presente che non si allenava ormai da mesi e fumava 40 sigarette al giorno. Pozzo non si scompose, gli tirò di bocca il mozzicone ancora acceso e lo spense dicendogli:  "Da ora non fumerà più. Allora, accetta?". E Ferraris si convinse all'istante, divenendo così una delle pedine inamovibili dell'Italia che vincerà quel Mondiale.  

Ma prima di alzare la coppa, il 3 giugno 1934, va di scena si diceva, la semifinale Italia-Austria. E’ una domenica, niente sole anzi parecchia pioggia. Calcio d’inizio, ore 15.00. Gli avversari, pur non giocando in casa come noi, restano i favoriti. Nei 13 incontri precedenti li abbiamo battuti una volta sola, rimediando per il resto 8 sonori ceffoni. Pozzo lo sa bene, e gioca la carta del sentimentalismo. Negli spogliatoi, prima di scendere in campo, ricorda ai suoi che i loro fratelli maggiori e i loro padri (oltre che lui stesso) avevano combattuto lo stesso nemico vent’anni prima sulle Alpi e sul Piave. Intona un canto famoso: “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio…”. Troppo noto il prosieguo, e troppo forte il sussulto d’orgoglio perché qualcuno non ne resti contagiato. Cantano tutti, carichi come non mai, e come sul Piave, anche sul rettangolo di gioco “non passa lo straniero!”. Anzi, è l’Italia a sfondare al 19’ con Guaita, al termine di un’azione maschia e corale che fa rotolare in rete, oltre al pallone, pure un paio di giocatori. Nel fango, nei restanti 70 e passa minuti di gioco lo scontro si fraziona in tante battaglie personali, ribattute dall’una e dall’altra parte colpo su colpo e perciò annullandosi faticosamente a vicenda. Come nel '15-'18 sul Grappa, sul Carso, lungo l’Isonzo o il Tagliamento. Non ci sono stavolta divise, reticolati, fucili o gas asfissianti, solo tenute da calcio e un pallone, ma l’impeto è simile. Non segnerà più nessuno, Pozzo e i suoi staccano così il biglietto della finale di Roma dove 7 giorni dopo trionferanno contro un’altra squadra espressione della scuola danubiana, la Cecoslovacchia, portando a casa la Coppa del Mondo.

E l’Austria, che 2 anni dopo gli Azzurri sconfiggeranno nuovamente nella finale olimpica di Berlino, farà da allora assai meno paura. Più o meno come lo era stato, per il suo esercito, ai tempi di Vittorio Veneto….  

 

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