Silvia Gelosi - “Dissociazione elementare”5/7/2022

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Silvia Gelosi - “Dissociazione elementare”5/7/2022

di Roberto Dall’Acqua

Ho intervistato la sensibile, colta e raffinata poetessa Silvi Gelosi.
Un privilegio, che ritengo caro, anche per le sue squisite e profonde doti morali di artista e di donna.
Silvia Gelosi è nata a Recanati nel 1977.
Ha vissuto e lavorato tra Macerata e Ancona fino al 2010. Attualmente risiede a Sarnano con il marito e i loro tre bambini.
Dal 2014 frequenta la scuola di cultura e scrittura poetica “Sibilla Aleramo” diretta dal professor Umberto Piersanti.
Scrive poesie e racconti brevi.
Le sue poesie sono apparse in diverse antologie.
Nel 2016 ha pubblicato una raccolta di versi intitolata "Frammenti".
 
Silvia come nasce questo libro?
La scrittura è parte di me. Negli ultimi otto anni, frequentando la scuola con il professor Umberto Piersanti, ho avuto modo di conoscere anche molti poeti contemporanei che mi hanno fatto capire quanto questo linguaggio possa entrarti nel sangue, quanto a volte, pure il tacere logori lentamente dentro. Allora ecco, io concordo che la poesia sia "un ponte gettato sull'assenza" come disse un giorno la Calandrone (ndr poetessa, scrittrice, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice radiofonica), si scrive anche per dare voce a qualcosa che altrimenti, non l'avrebbe mai.
In questo modo, ho sottoposto ogni sasso, ogni ago, ogni corda tesa fino a farne diventare carta e verità mescolata tra le righe e le foto, di questo viaggio fermo in cui finalmente, il grido che lo conteneva, è riuscito ad avere la sua forma esatta.
 
Cosa significa per te scomporre e ricomporre parole?
La scomposizione prima di tutto credo avvenga dentro, ci si divide in milioni di piccoli pezzi, e spesso, siamo come contenitori di cose perdute. 
Questo piccolo libro, è un quaderno pieno di righe e spazi che contengono fotografie graffiate e l’alternanza di un’impostura, l’altra voce, la roccia che ferisce. Delle parole, aspetto la sedimentazione, il posto giusto, il suono che possa avere lo spazio per restare.
 
Grazie per aver dato voce a queste mie righe e la mano a questo piccolo lavoro che adesso, finalmente, può iniziare a camminare da solo nel mondo.
 
 
[...]
Gli strumenti che Silvia Gelosi si è costruita per dare forma al suo abitare le parole
sono ... elementari. Però non ingenui. Mostrano un lavoro che trasforma eventi e vicende taciute in accadimenti del sentire, in disorientamenti della percezione e segni di un’astra- zione che rende riconoscibile, però, il perimetro di una carcerazione dell’io, con il suo buio e le sue ombre, ma anche con i fasci di luce e le lame luminose che lo attraversano. Da un lato c’è la vita che ogni giorno presenta il conto dell’insofferenza, della fatica, della perdita di quel sé che si sarebbe voluti essere e che ancora si vorrebbe; ma, d’altro lato, quello che ancora si vorrebbe, al cospetto del presente, dovrebbe essere altro, dirsi altrimenti.
[...]
Da
Volersi vivi e veri, nonostante di Gian Mario Villalta
 
Da DISSOCIAZIONE ELEMENTARE
 
[Non esiste quello che tenevi tra le mani, inciampi anche tu come l’estate un canto di cicale come di parole, una sequenza – poi – quello che tradisce ogni ricordo in lontananza.]
*
Sono solo appunti di guerra questi, un quaderno che non finisce e mescola il tempo in lettere sovraesposte. A volte la fine stringe meno la gola lascia andare – lascia svanire – resta addosso –
e come loro, io, straniera ma senza dottrina alcuna una vista, lo sguardo teso alle cose e l’innocenza dell’errore, ciò che non sarebbe dovuto nascere
o esistere, adesso, pesa più di tremila e settecento giorni.
 
 [Mi consegno al silenzio smisurato che spalanca le ore io piena di parole che si strozzano in un guscio inghiottito dagli sguardi sfilo ad uno ad uno i sospiri per non sprofondare dentro la fenditura che muta inganna il taglio profondo della terra.]
*
Prendi a pugni il limite e ti rimbalza
addosso il verso smisurato del silenzio.
Si stringe al petto una forza oscura verticale mentre penso, non mi appoggio più sulla soglia ormai. Dal vetro chiuso custodisco storie morte ringrazio distrattamente questo tempo regalato, svuotato giorno dopo giorno dalla ferocia
che gocciola paziente. Scendo in basso senza corda il lancio dal trapezio è senza rete, tengo
gli occhi chiusi come per pregare, per sperare
di salvarmi ogni volta, o comunque
un’altra volta ancora.
 
 [Lo vedi? Il verso, da solo, è più semplice. È la verità che interpreta la parte chiara, quella troppo esposta. Meglio la scheggia, forse il dolore continuo sottopelle,
quello che non guarisce quello che non si chiude mai del tutto. Farò ciò che dici comunque perché sono il ponte rotto dopo la salita la parola scritta male che non trova il modo giusto per restare.]
*
Questo modo di guardare gli alberi forse
me lo hai insegnato tu, qui la buriana
non esiste, qui non c’è niente che mi tenga. L’aria strappa via le foglie rosse ancora vive arriva per tagliare per sparpagliare cose rotte e si diventa un mucchio di cose sfatte. D’inverno la montagna è più grande
mi sovrasta tutta quanta, il cielo mi scurisce e lo sguardo è sempre lì, davanti al muro bianco che mi rimanda indietro.
È un elastico il confine, un rimbalzo secco tra le case scure e i giardini vuoti.
 
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