ALESSIO E SIMONE, UCCISI DUE VOLTE
02 agosto 2019
di Giovanni Schiavo
Un investimento nelle vie di un paese, Vittoria, provincia di Ragusa. Due ragazzini, cugini fra loro, Alessio e Simone, vent’anni in due, seduti sul gradino della porta di casa a giocare col cellulare. Una Jeep Renegade che si muove da padrona nei vicoli, a velocità folle, un impatto mortale: Alessio muore sul colpo, Simone ha le gambe tranciate e morirà due giorni dopo.
Ci sarebbe poco da dirne se da questa atroce e insensata disgrazia non uscisse fuori, un pezzetto dopo l’altro, il ritratto di un’Italia minore dove esistono ancora cafoni e principi, persone che calpestano e persone che devono rassegnarsi a essere calpestate, persino nel giorno dei funerali dei loro bambini.
Il primo pezzo della storia è la serata brava di Rosario Greco, 37 anni, primogenito del re degli imballaggi del paese, ritenuto vicino alla famiglia mafiosa gelese dei Rinzivillo. Guida come un matto, ubriaco e strafatto di cocaina, perché è il figlio del padrone, si sente intoccabile e probabilmente lo è: nonostante i precedenti per detenzione di arma è libero e a bordo tiene uno sfollagente telescopico e una mazza da baseball. Dopo l’investimento lo prendono, lo arrestano, identificano e denunciano anche gli altri a bordo fra i quali c’è Angelo Ventura detto ‘U Checcu, pure lui pregiudicato, pure lui figlio di boss. È il primo pezzetto della storia, fin qui solo un orribile caso di cronaca nera.
Poi, nel giorno dei funerali di Alessio, con proclamazione del lutto cittadino, il paese è sconvolto, la partecipazione è enorme, viene fuori che l’organizzazione delle solenni esequie è stata affidata all’agenzia di un tal Maurizio Cutello, coimputato di ‘U Checco in un processo per associazione mafiosa. A rivelarlo è il giornalista e scrittore Paolo Borrometi. Contro di lui parte una raffica di minacce via social, roba da non sottovalutare: Borrometi, si scopre, è stato già aggredito e mezzo ammazzato di botte qualche anno fa, quando si era occupato del misterioso omicidio del giovane e innocuo postino di Vittoria, un delitto rimasto impunito. L’ultimo brandello della vicenda è la notizia che nel vortice delle indagini sui clan locali è finito sotto sequestro anche il commissariato di Vittoria: uno dei due proprietari dello stabile è un detenuto per mafia. Incassava dal Viminale 105mila euro l’anno per l’affitto.
In questa catena di fatti, agganciati uno all’altro come un gioco di scatole cinesi, c’è il ritratto dell’Italia minore e sottomessa che abbiamo dimenticato, distratti da emergenze più nuove e clamorose (e forse anche più facili da fronteggiare). Postini morti, bambini falciati, giornalisti menati, clan cointeressati in tutto, dalle imprese funebri ai locali dove lavora la polizia, e c’è da chiedersi come vivano a Vittoria e nei molti Comuni dove suona la stessa musica gli italiani normali, i non figli di boss, quelli che stanno dall’altra parte delle Jeep Renegade, dei fucili, delle mazze da baseball.
L’altro giorno, leggendo la notizia della morte del secondo ragazzino, Simone, la politica ha avuto un sussulto di interesse e dignità e in tanti hanno chiesto condanne esemplari e carcere duro per i colpevoli. Ma per riconnettere le troppe Vittorie italiane allo Stato, per farne un posto dove i delinquenti abbiano paura di esibirsi sgommando o dove i cittadini recuperino il coraggio della testimonianza, non basteranno un paio di processi. Questa Italia feudale, iniqua, dimenticata, dovrebbe riconquistare un posto speciale sotto i riflettori pubblici ed essere tema centrale in ogni discorso sulla diseguaglianza.
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News » DIBATTITI E OPINIONI | venerdì 02 agosto 2019
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