SEID VISIN - SUICIDA PERCHÉ NERO ANZI NEGRO

05 giugno 2021

di Roberto Dall’Acqua
 

Seid Visin, prima di morire, ha lasciato una lettera lacerante, ma anche limpida e di una forza inaudita che spiega: «ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone». Seid Visin - nato in Etiopia e adottato da piccolo in Italia - aveva 20 anni e viveva a Nocera Inferiore.

Le giovanili del Milan
Era tornato in Campania dopo aver giocato due stagioni nelle giovanili del Milan con tanti ragazzi che sognano di diventare campioni affermati. Qualche partita anche con la maglia del Benevento ma alla fine aveva scelto di studiare mettendo la parola fine alle ambizioni di sfondare del calcio professionistico. Da poco era giocatore del l’Atletico Vitalica, una squadra di calcio a cinque.


L’infanzia tra sport e studio
Seid si impegna con lo sport e lo studio; è un ragazzo amorevole in famiglia, amato da tutti. Vivere in un universo privo di razzismo però, specialmente quando non è più adolescente, diventa difficile.
Qualche mese fa aveva scritto una lettera alla psicologa che lo seguiva e agli amici dicendo: «Io non sono un immigrato». «Sono stato adottato da piccolo (...). Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto». (...) «Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro». Il giovane prosegue: «Dentro di me è cambiato qualcosa». «Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco».

La lettera agli amici
Il finale di questa lettera-testamento è agghiacciante: «Facevo battute di pessimo gusto su neri e immigrati (...) come a sottolineare che non ero uno di loro. Ma era paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati». E poi: «non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”».


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