Gli dei di Tebe

24 marzo 2019

Testo di Pierluigi Moressa

Foto tratta da https://www.studiarapido.it/sette-contro-tebe-di-eschilo-riassunto/#.XJd4eetKijg

 

LA CITTA’ ASSEDIATA E LA PERDITA DEL MITO

“Pregate che le mura ci difendano 

dal nemico. E’ lì che sono gli dèi.”

(Eschilo, I sette a Tebe)

 Nella città assediata dagli Argivi, Eteocle enuncia, con brevi frasi, i precetti di una sapienza che si ispira al divino. Scopo del re di Tebe è quello di infondere coraggio al popolo, rinnovando la fiducia nei custodiolimpici della città. Fondamento del mondo eschileo è la certezza di una presenza superiore a cui l’uomo deve appoggiarsi per conservare la vita e aspirare alla giustizia. Così ancora ne Le supplici“un altare è difesa più solida di un muro”La religiosità in Eschilo superale credenze popolari e minimizza le immagini leggendarie delle divinità discordi e intemperanti. Di fatto, pur nel rispetto delle tradizioni sacre, la ricerca di autenticità riesce a dare piena voce alla sofferenza dei protagonisti, pervasi da un dolore comprensibile e condiviso. La distanza tra l’umano e il divino è descritta talvolta come incolmabile, come il frutto di un destinoche si compie inesorabilmente attraverso le generazioni, per quanto dia luogo a vicende difficili da accettare.Dopo l’annuncio del pericolo recato dagli assedianti, si fa intenso il confronto tra Eteocle e il coro. Questo è formato da donne, che, nella società greca, rispetto ai maschi, occupavano una posizione inferiore. Eschilo affida a loro la necessità di gridare per lo spavento delle distruzioni incombenti, per la minaccia della schiavitù; sono le donne a imporre immagini vive e concrete. La risposta di Eteocle ricorre alla evocazione degli dèi sacri alla città, col fine di non disperdere le forze dei combattenti e di indirizzare le menti verso la speranza: “I numi fino a oggi hanno piegato/ gli eventi al bene e dalla nostra parte … e in tutto questo tempo/ la guerra con l’aiuto degli dèi/ in gran parte ha risposto ai nostri voti”. Il consesso olimpico è ampio: Zeus Ausiliatore, la madre Terra, l’antico Ares protettore, la Forza (figlia di Zeus): colei che “ama la battaglia”, Atena onorata in Grecia e (come Pallade Onca protettrice del pomerio) in Fenicia, Poseidone, Cipride, Era sovrana, Apollo Liceo, Artemide (“vergine nata da Leto”). La rappresentazioneriesce ad attraversare il passaggio dal simbolico al reale (“lascia le statue e prega che gli dèi/ scendano in campo al nostro fianco”), così da allontanare momentaneamente l’annuncio del destino che grava sui figli di Edipo. E’ questa la prima ombra delle Erinnisvelata dal testo. Eschilo colloca l’anatema paterno su un piano più ampio: al confine tra la civiltà dell’Ellade e la dissoluzione della polis. Vero è che: “Solo una città/ che ha sorte felice onora i numi”. Ma al contrario: “Città presa non ha più dèi. E’ il detto”La fede dell’uomo e il progetto dello stratega coincidono, sviluppandosiattraverso modulazioni articolate tanto sul beneficio della presenza quanto sul pericolo dell’assenza divina. Qui risiede il mito di Eteocle. E’ un mito che ha valore individuale e collettivo. Si fonda sul principio di un ordine superiore e consiste tanto nella fruizione della sapienza che sa governare la città quanto nell’esercizio di una fede (pietas) capace di accostarsi alle certezze della ragione. Queste potrebbero allontanare la distruttività e l’ombra mortifera che, gravando sul destino del protagonista, appartengono alla discendenza dei Labdacidi. L’anatema lanciato da Edipo sui proprifigli ne ha rinnovato la minaccia. Di fatto, come annuncia la Corifea“Non passa per le case/ la nera Erinni, quando i numi accolgono/ dalle mani le offerte”. A essa il sovrano risponde con amara certezza: “Non è dato/ sfuggire a un male, quando il dio lo manda”.Eteocle (uomo dalla vera fama) non rende esplicito il motivo del conflitto che lo contrappone a suo fratello Polinice (individuo dalle molte contese). Risulta questo un espediente impiegato da Eschilo per non rappresentare in modo netto la contrapposizione tra il bene e il male. Così, Eteocle, privando Polinice del suo diritto annuale alla successione sul trono di Tebe, compie un’ingiustizia, esplicitamente motivata dalla cautela chegli vieta di cedere il potere a un individuo noto per il suo temperamento bellicoso. Il mito collettivo, auspicando la vittoria di Tebe, esprime la necessità di salvare la patria, tema comune al patrimonio mitologico degli antichi popoli e riscontrabile “nei residui delle fantasie di desiderio di intere nazioni, e cioè nei sogni continuati per secoli dalla giovane umanità”. La totalecontrapposizione fra Eteocle e Polinice è solo apparente, in quanto il loro dissidio esprime tendenze ambivalenti,riscontrabili contemporaneamente nel cuore di ogni uomo. I due fratelli compongono una coppia di alter ego,con aspetti di complementarietà la cui tragica valenza è destinata a svelarsi nel finale. A Eschilo preme, tuttavia, insistere sull’immagine dellpolis retta da un potere grato agli dèi e per questo dotata di un ordine intrinseco:“La città greca è uno spazio sulla terra coltivata con, ai suoi confini, la montagna o il deserto dove erra la baccante, dove vaga il pastore, dove si esercita l’efebo; è un tempo fondato sul permanere delle magistrature di fronte al rinnovamento dei magistrati; è un ordine sessuale che riposa sul dominio politico dei maschi adulti e l’esclusione provvisoria dei giovani; è un ordine politico in cui si inserisce con maggiore o minore facilità l’ordine familiare; è un ordine greco che esclude i barbari e limita la presenza di stranieri, anche greci; è un ordine militare in cui gli opliti prevalgono sugli arcieri, sulle truppe leggere e perfino sulla cavalleria; è un ordine sociale fondato sullo sfruttamento degli schiavi e l’emarginazione dell’artigianato … E’ la combinazione, l’azione reciproca di queste inclusioni e di queste esclusioni che costituisce l’ordine civico”. Ma, nel momento in cui intende esaltare il valore della città, Eschilo si accinge a metterlo in discussione, secondo l’ottica della tragedia, che “è a un medesimo tempo un ordine e un disordine”. Tutto questo troverà spazio nella seconda parte de I sette a Tebe, che vede l’attacco alle mura e la difesa delle porte urbiche.

 Attraverso la dialettica delle somiglianze e delle differenze, la polis può fungere da metafora per raffigurare con efficacia l’attività mentale. La costituzione dei confini dell’Io e la permeabilità dei neuroni agli stimoli sensoriali fa pensare a una barriera paragonabile alle mura e alle porte, soggette queste a più delicati fenomeni difensivi. Lì risiedono gli “dèi”, intesi come strutture necessarie alla vita psicologica del soggetto e allo scambio relazionale. Così, durante l’infanzia, la maturazione dell’apparato psichico consente il riconoscimento degli stimoli provenienti dall’interno accanto alla necessità di un apporto proveniente dal mondo esterno. L’aiuto di un adulto, indispensabile al bambino, crea la condizione dellintesa necessaria alla vita e al corretto sviluppo psichico“l’impotenza iniziale degli esseri umani è la fonte originaria di tutte le motivazioni morali”. La vicendadella mente primitiva (sorta di mito dell’ordinamento individuale) descrive l’evoluzione dalla indifferenziazione iniziale verso le tappe successivedella crescita psicologica, quali, per esempio, la capacità di essere soddisfatto, la conoscenza del mondo esterno, l’avvio di esperienze legate alla memoria e al giudizio.Questo ordine è alla base del futuro sviluppo etico dell’individuo. Lo stato di autarchia psicologica di Eteocle (confermata dal contrasto che egli sostiene col coro femminile e dal disprezzo che nutre verso le donne)esprime, d’altra parte, la debolezza del personaggio. Allo stesso modo, il corretto sviluppo dell’essere umano non può fare a meno dell’intervento sollecito di cure maternee di una dialettica costruttiva tra il maschile e il femminile. E’ possibile compiere qui il riferimento alla pretesa autosufficienza del maschio lungo la genealogia degli avi di Eteocle, confermata dal ricorrere di gravi episodi di violenza e di sopraffazione. Il ruolo della donna è stato escluso fin dal tempo della nascita leggendaria dell’antica Tebe. Di fatto, la stirpe degli Autoctoni è una progenie completamente maschile, ottenuta da Cadmo, il fondatore della città, che haseminato i denti di un pericoloso serpente ucciso. Da essi, per autogenerazione, sono nati guerrieri, gli Sparti,talmente bellicosi da creare turbolenze immediate eaggressioni violente fino alla morteSolo cinque di lororiescono sopravvivere e a dare origine al popolo tebano.

 A difendere le porte della città, Eteocle invia anche alcuni diretti discendenti degli Sparti, guerrieri di indiscussa fiducia. All’esterno delle mura di Tebe, assistiamo alla descrizione di un mito negativo fondato sul desiderio di conquista e sulla volontà di potenza. Altri sono gli dèi che lo animano. Gli assedianti “hanno giurato/ per Ares e la Strage e il Terrore/ che ama il sangue, o di radere al suolo/ e le mura e la rocca, e a ferro e fuoco/ mettere a sacco la città di Cadmo,/ o di morire e intridere la terra/ del proprio sangue”. Accanto a queste divinità stanno Erinni, furia vendicatrice“che agli dèi non somiglia”, e Ate, personificazione della calamità e della cieca vendetta. Del mito di conquista e di potenza fanno parte anche gli atti di autocelebrazione: “E al carro di Adrasto/ di loro mano appendevano i doni/ da portare a ricordo di se stessi/ ai loro padri nelle case”. L’hybris, l’orgoglio tracotante degli Argivi si rende presto evidente, ma non è totale. Tra gli assedianti, l’indovino Anfiarao (uomo dalla duplice maledizione)espone, infatti, principi etici che lo pongono in contrasto con i capi della spedizione: “ricopre/ Tideo d’ogni improperio. Lo chiama/ uccisore di uomini, terrore/ della propria città, grande maestro/ di sciagura per Argo, evocatore/ dell’Erinni, ministro della Strage,/ consigliere di tutti questi mali/ alla casa di Adrasto”. Anfiarao non fa mancare il biasimo neppure a Polinice: “questa –dice- è l’impresa che ai numi/ è cara … radere al suolo la città dei padri/ e l’are degli dèi ereditate/ col proprio sangue, portandovi contro/ un esercito fatto di stranieri?/ E v’è causa che può dare il diritto/ di seccare le fonti della vita/ nel seno della madre? E quando il ferro/ e il tuo furore avranno conquistato/ la tua terra, potrai averla amica?” Anfiarao, a differenza degli altri assedianti, non reca emblemi sullo scudo, per “essere,/ non parere il migliore”. Uomo forte e giusto, ha dovuto unirsi agli empi in seguito alle trame di Polinice; questinon ha esitato a impiegare ogni mezzo per comporre un esercito diretto alla conquista di Tebe. Se equa poté apparire la pretesa del tebano di recuperare il trono, del tutto insano è il modo con cui egli ha recato guerra alla propria città“L’aratura/ di Ate non dà spiga che di morte”. Così, la violazione degli altari della città nataleesporrebbe il conquistatore a un’ulteriore persecuzione: “gli dèi possono diventare demoni malvagi quando nuove divinità li soppiantano. Quando un popolo è stato vinto da un altro, accade non di rado che le abbattute divinità dei vinti si trasformino per il popolo dei vincitori in demoni”. Il demone che assedia Polinice lo rende esplicito protagonista del ruolo impresso alla vita dei figli dall’anatema di Edipo.

 Nella parte finale del secondo episodio dei I sette a Tebe, Eteocle presenta una trasformazione. Da re accorto e da sapiente stratega, egli diviene un uomo scosso dall’angoscia profonda, si mostra vittima del proprio destino: “O invasata e furente, o abominata/ dai numi, e in tutto miseranda, stirpe/ nostra di Edipo! Ecco ora si compiono/ le maledizioni di mio padre!” E’ questo il momento in cui egli comprende che dovrà scontrarsi in duello con suo fratello Polinice. Questa sequenza segnala la perdita del mito, evento che impegnerà il re di Tebe in uno scontro mortifero. Lperdita del mito apre il campo alla forza bruta, che sovverte il saggio ordinamento, spegne la razionalità, invade la mente con la distruttività pulsionale, abolisce ogni intento etico. Il ricorso alla violenza pone i contendenti sullo stesso piano, dove il declino della capacità di simbolizzazione lascia spazio all’azione inevitabile. Così, la perdita del mito coincide con la coazione a ripetere familiare e con la soggezione agli oggetti interni distruttivi. Eteocle non muta, ma perde la propria identità; assume il ruolo di figlio di Edipo, mentre il suo discorso si riduce a frasiinsistite dal contenuto monotono e dal tono dimesso. Eschilo sovrappone il destino di Eteocle e di Polinice alla condizione umana, avvinta dall’impossibilità di sottrarsi al volere degli dèi. Questo sposta l’attenzione sul problema della colpa. L’uomo è da ritenersi non responsabile dei propri atti, perché il fato viene dagli dèi o l’uomo è autore del proprio destino, mentre gli dèi vorrebbero il suo bene? Il dilemma è contenuto nel dialogo tra Eteocle e la Corifea. Dopo la perdita del mito e la disperazione del protagonista, la figura femminile assume rilievo sul piano etico e drammaturgico, incarnando per Eteocle una possibile presenza materna“Figlio a che pensi, che smania è la tua?/ Bada che il cieco errore,/ ebbro d’ira e che avido è di ferro,/ non ti trascini, taglia alle radici/ la tua voglia funesta”. La risposta di Eteocle indica come la perdita del mito coincida con l’assenza degli dèi: “I numi non si curano di noi/ ormai”. Più forte della benevolenza divina è, dunque, la necessità della ripetizione di un destino familiare. La via per uscire dalla coazione a ripetere è indicata da Eschilo nella capacità di accogliere contemporaneamente il maschile e il femminile entrouna dialettica adatta a ricomporre i contrasti e a far prevalere l’identità matura. Nel tessuto della tragedia, questa funzione appare tuttavia destinata al fallimento.Di fatto, Antigone, presente con Ismene nella scena finale, propone invano il ripristino del mito, attraverso la sepoltura che vorrebbe offrire a Polinice, ponendosi in contrasto con l’editto di Creonte.

 La perdita del mito si fa causa di una abolizione delsentimento etico propagata attraverso le generazioni. Questo appare il destino degli Epigoni, i figli dei sette assedianti sconfitti a Tebe, decisi a vendicare la morte dei padri. Anche in questo caso, la necessità della contesa ricade sui discendenti. E’ Tersandro, il figlio di Polinice, a perorare la causa della spedizione contro Tebe presso Erifile, la moglie di Anfiarao. Egli laconvince, grazie all’offerta del peplo di Atena, il dononuziale appartenuto all’ava Armonia. Guidati da Alcmeone, gli Epigoni si dirigono a Tebe, retta da Laodamante, che è figlio di Eteocle. Questi verrà ucciso dal capo della spedizione. La fuga dei tebani precede l’invasione della città da parte degli assedianti, che la devastano e ne atterrano le mura.

 Il conflitto fra “le divinità dell’ordine e della sovranità cosmica e quelle del disordine primitivo” viene rispecchiato dal racconto tragico entro la realtà terrena; in Eschilo, non esiste conflitto umano che non sia tradotto nel contrasto con le forze divine. Il progresso evocato dal drammaturgo è quello verso una consapevolezza in cui il valore del mito possa sottrarre l’individuo dalla coazione dell’hybris e favorire uno stato individuale e collettivo che non si ispiri né all’anarchia né al dispotismo. Il buon governo della polisdiviene il concreto modello per la democrazia del pensiero, capace di dar valore al mito e di estenderne gli effetti alle generazioni successive. La coazione a ripetere che la tragedia enuncia rinnova gli effetti di una perversione da cui i protagonisti non riescono a liberarsi. Lo scenario contrapposto è quello della maturazione e dell’indipendenza per l’Io, capace di conservare il mito come fonte di valori etici e di prendere le decisioni conautonomia. L’assedio di Tebe può essere assunto a metafora dell’angoscia che assedia la mente e spinge acompiere gesti gravati dal significato di agiti distruttivi. In questo, il duplice omicidio dei due fratelli dovrebbe apparire come un sacrificio voluto dagli dèi. La perdita del mito lo rende, invece, esempio sacrilego, costrizione a ripetere i delitti, corruzione morale, assenza dipensiero. La norma che la tragedia propone può essere  trasformata nello stimolo per una riflessione costantesulle dinamiche psichiche. E la complessità della metafora fa intendere come gli elementi di corruzione del mondo etico finiscano per accompagnarsi a una ridotta capacità di analisi su se stessi e sulle dinamicheconnesse con le proprie azioni: “Non v’è cosa peggiore/ che d’essere alleati in un’impresa/ a una malvagia compagnia […] Un uomo pio che salga sulla nave/ con una ciurma a cui ribolla il cuore/ a un’opera maligna, va in rovina/ con uomini aborriti dagli dèi./ E uno giusto, in mezzo a cittadini/ inospiti e dimentichi dei numi,/ cadendo nella stessa rete, è preso/ e abbattuto, senza averne colpa,/ dalla sferza di dio che li flagella/ tutti in un branco”.

BIBLIOGRAFIA

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