LA SINDROME DI OTELLO

07 gennaio 2018

di Catia Capobianchi

«È finita!»

«Cosi senza una parola?»

«Sì così!»

«E poi?»

«Se n’è andato!»

Clara rimase a guardarmi sconcertata. Gli era impossibile credere che per l'ennesima volta, fossi stata mollata.

Me ne stavo con la testa china a osservare la sua foto. Franco me la diede dopo una settimana che ci frequentavamo, dicendo di guardarla ogni volta che gli mancassi, anch’io gli diedi una mia foto sperando che anche lui facesse altrettanto. Questo scambio all’apparenza frivola, rendeva il nostro rapporto più forte, unendoci nei momenti in cui non eravamo assieme, perlomeno lo era per me. La sera quando tornava mi abbracciava teneramente e, immancabilmente finivamo con il fare l'amore.

«Mi ha ridato la foto.. »

«Margherita», disse Clara con una punta d'ironia che detestai. «ti sono vicino nel tuo dolore, ma quella foto è passata in tante di quelle mani! Ti rendi conto? Ogni qualvolta che incontri un uomo dici che è quello giusto, e gli rifili la stessa foto! Almeno cambiala! Pensa se qualcuno dei tuoi amanti si conosca, sai come sono gli uomini, si confidano le loro avventure e ne esci tu, con la tua foto e sempre la stessa. Non è ridicolo?»

«Per me non erano avventure!» dissi indignata.

«E perché durano sempre così poco? Te lo sei mai chiesta?»

«Non mi sei per niente di aiuto! Sembro io il carnefice! Sono loro che mi hanno lasciato!» tuonai irritata.

«Si va bene.» rispose Clara, cambiando tono accorgendosi che mi stavo alterando. «Mettiamolo in un altro modo, prenditi una pausa hai il lavoro..»

«Lavoro, pausa, ma di cosa stai parlando? Io mi sento sola, ho bisogno di qualcuno vicino a me!»

«Lo so, ma di tutti gli uomini che hai incontrato, c'è né uno che veramente ti ha reso felice?»

«All'inizio sì.»

«E dopo?»

Sbuffai, so a cosa voleva approdare quindi, cercai di evitare di giungere nel difetto che consapevolmente era il coltello che strappava i cardini.

«Margherita», si avvicinò Clara posandomi una mano sulla spalla. «tu lo sai dove sbagli, forse può anche essere che non sia proprio uno sbaglio, ma dovresti trattenere queste tue emozioni.»

Esitò un attimo cercando le parole, mentre con le mani gesticolava scartabellando tra i suoi pensieri un modo più conciso e, che nello stesso tempo non mi ferisse. «Sei troppo passionale, non puoi diventare gelosa di una persona che appena conosci. Per essere gelosi deve esserci un motivo. Comprendo anche che faccia parte della tua indole ma cerca di capire, un uomo così si spaventa. È ovvio che inizialmente possa far piacere, ma se la cosa diventa assillante, è interpretato come un pericolo e gli uomini fuggono ogni forma di pericolo, soprattutto emotivo.»

«Ma io lo amavo!» urlai.

«Chi?»

«Franco!»

«Franco è l'ultimo?»

«Dai non dire così, mi fai sentire una poco di buono.»

«Scusa, non era nelle mie intenzioni.» sospirò. «Quanto è durata con Franco?»

«Tre mesi.» risposi categorica.

«E con Claudio?»

«Stai facendo un censimento?»

«Rispondimi, con Claudio?»

«Non lo so! Tre, quattro mesi!»

«E con Giacomo?»

«Clara! Che significa, che importanza ha?» chiesi inasprita.

Sentì che mi pizzicava la schiena. Quella posizione non era così comoda come si pensa, e il prurito avanzava scendendo fino le gambe per poi risalire fino al petto e al viso. Cominciai a grattarmi nervosamente, sembravo un’invasata.

«Calmati, hai preso le gocce?»

«Sì.»

«Quali?»

«Le solite.» risposi frettolosamente per deviare il discorso.

«Margherita, l'ultima volta sono arrivata con l'ambulanza! Mi costringi a levartele!!»

 

«Mi doleva la testa, ero agitata, così ho preso l’antidolorifico e dopo un po’ l’ansiolitico!»

«Questo lo dici tu! Non puoi mescolare l’ansiolitico con l'antidolorifico, e per giunta ci hai bevuto sopra. Se ti vuoi suicidare, dimmelo!»

«Ho bevuto solo un aperitivo attendendo che facesse effetto l’ansiolitico, non pensavo mi facesse male. E poi mi aveva appena lasciato Carlo ero giù e tu, non rispondevi. Se ci fossi quando ho bisogno!»

«Non posso essere presente, ventiquattro ore su ventiquattro! Potevi lasciarmi un messaggio ti avrei richiamato!»

«Avevo bisogno di te in quel momento!» replicai.

Clara si alzò e andò a prendere un bicchiere d'acqua, contemporaneamente suonò il telefono: «Pronto?» si allontanò in un’altra stanza. Non so quanto tempo passò, minuti? Mi sembrarono ore. Quando tornò, si scusò chiedendomi se desiderassi qualcosa, rifiutai. Desideravo solo parlare, sfogare l'angoscia che mi attanagliava il cuore indebolito dalle delusioni.

«Credo di essermi sbagliata riguardo alla tua patologia.» affermò Clara.

«È una malattia?»

«Sì, a volte queste emozioni superano il livello di guardia, oltrepassando il traguardo della razionalità.»

«Non afferro.» risposi.

«Inizialmente credevo che la tua fosse una forma di possessività dovuta alla mancanza di tuo padre, perdonami se te lo rammento.»

«Niente.» risposi cercando di evitare il ricordo.

«Poi con l'accumularsi delle tue sfortunate vicende che si perpetuano proiettandosi tutte allo stesso modo, ho maturato l'idea che tu soffra di gelosia.» proseguì Clara.

«Questo me lo hai già detto.»

«Sì ma vedi», posò sul tavolo il taccuino. «quello che non riesco a mettere a fuoco è che tipo di gelosia.»

«Perché si possono definire più gelosie?»

«Inizialmente pensavo si trattasse di gelosia ossessiva, dove il dubbio sull’infedeltà del partner è lacerante e non si riesce a zittire. Tu sei sempre alla ricerca di segnali che possano lenirlo, confermazioni per smentirlo. Ricordi cosa assodasti dopo aver trovato tra le cose di Franco, uno slip da donna? Gli feci l'interrogatorio di terzo grado, fosti peggiore della Gestapo. Alla fine ottenesti la confessione.»

«Ah.. ah! Fu poi la sorella a dirmi di averle messe tra le sue cose per errore.»

«Poi quando ti mettesti in contatto con un detective per indagare sulle attività di Claudio? Eri pienamente convinta della sua infedeltà, solo perché la sera andava ad allenarsi in palestra. Poi come hai costatato, finiva la serata con gli amici al circolo e alla fine lui si accorse. All’inizio la prese a ridere ma, tu non soddisfatta continuasti a farlo pedinare, perché eri convinta che una volta appurato, il fatto che non facesse niente di male, dora in poi avrebbe potuto dilettarsi con le sue amanti. Quando lui percepì che in te c’era qualcosa di più profondo di una sana gelosia per altro infondata, ti avvertì di allentare la presa ma tu che feci? Il contrario; forzasti il pedinamento arricchendo le tasche del detective, cui unica mansione era di starsene in macchina e aspettare che Claudio finisse di allenarsi per poi spostarsi fino al circolo accanto.»

Scrollai la testa cercando una giustificazione al mio comportamento. Ora, lontana dal fatto potevo reputarmi una stupida con dei veri problemi ma, in quelle circostanze credevo che i miei gesti fossero legittimi, non volevo essere presa in giro e derisa da amanti scaltre. Che idiota! Perché agivo in quel modo?

«Cominci a capire? Tutti i giorni lo sottoponevi a martellanti interrogativi, controllando minuziosamente il suo abbigliamento e ficcanasando nel suo cellulare. Ricordo che mi dissi di renderti conto delle tue esagerazioni ma, che non riuscivi a smettere di levarti dalla mente certi pensieri assurdi. Lui ti disse che eri malata, e tu oltre a dirgliene di tutti i colori gli tirasti una sedia addosso.»

Fece un attimo di pausa prima di continuare, come se volesse dar tempo alle sue parole di penetrare nella mia mente e assimilarle. «Quel giorno Claudio venne da me pieno di lividi, e se non fosse stato che sei una donna non l'avresti passata liscia, stanne certa. E non so come ho fatto a convincerlo a non denunciarti!»

«Allora perché mi ha lasciato?»

«Margherita, cosa devo fare con te!» Si alzò spazientita, dirigendosi verso la finestra guardando distrattamente fuori.

«Ho sbagliato. Non so cosa mi abbia preso, non riuscivo a controllarmi! Lui però ha ammesso di avermi tradito!»

«L'hai costretto!» urlò Clara spazientita. «L'hai accusato d’infedeltà, e nella speranza di porre fine a quella situazione insostenibile, ha ammesso un tradimento inesistente! E tu? Invece di placare la tua ira dopo aver ottenuto ciò che volevi sentirti dire, hai intensificato la tua aggressività per tentare di strappargli altre infedeltà! Ti sei bevuta il cervello?»

 

«Ti ho detto che mi dispiace!»

 

«Non lo devi dire a me! La tua gelosia è giunta oltre, questi atti violenti nei confronti dei tuoi partner rischiano di portarti dritto dentro un abisso. Oltre a danneggiare gli altri, fai male a te stessa!»

 

«Ma è successo solo con Claudio!»

 

«No, ti sei dimenticata di Franco?  Margherita devi smettere, devi fermarti!»

«Sono malata eh? Dai dimmelo, ammettilo! Sono malata!» ripetei nervosamente.

Il prurito si accentuò, assieme al tremore. Mi sentivo confusa, estranea a me se stessa, inutile, insulsa. Mi alzai specchiandomi sul grande specchio e vidi un mostro; una mantide religiosa che afferrando gli uomini se li mangiava. Urlai dallo spavento davanti a quella visione. Mi toccai per sentire se ero ancora io. Mi strappai i capelli e guardando le mani vidi questi trasformarsi in vermi che scivolando cadevano sui miei piedi. Cercai di mandarli via, ma questi rimanevano appiccati moltiplicandosi. Sentì uno strattone, era Clara che gridando ripeteva il mio nome.

 

«Che cosa è successo?» domandai.

Lei mi osservò turbata, poi trascinandomi sul divano mi fece sedere accostandosi accanto, con un bicchiere colmo d'acqua pregandomi di bere. Bevvi senza farmi pregare, qualsiasi cosa ci fosse stata dentro. Infatti, dopo qualche minuto mi sentì più leggera, i mostri erano svaniti come se mi fossi svegliata da un incubo. Ero sudata e scompigliata come se avessi fatto a botte: «Chi mi ha ridotto così?» chiesi.

Clara alternando la sua attenzione tra me e il taccuino, su cui scriveva parole per me senza senso, mi chiese cosa ricordassi.

«Su cosa?» domandai perplessa, mentre la osservavo nel suo frettoloso scribacchiare. «Che cosa stai scrivendo?»

«Di te.»

 

«Cosa?»

 

«Appunti..» rispose superficialmente.

 

«Se stai scrivendo di me, voglio essere informata! Non sei la mia amica?»

 

«Sì, certo. Ma sono anche una psicologa. Pochi minuti fa hai avuto un attacco.»

 

«Oltre a essere malata sono pazza? O gli aggettivi hanno lo stesso significato? Cosa mi sta succedendo? Ho paura aiutami! Parla chiaro, che cosa ho?»

 

Clara spasimò trattenendo il tempo in un lungo silenzio, poi mi guardò dritto negli occhi e disse:

«All'inizio pensavo che soffrissi di mal d'amore, poi di una forma di gelosia ossessiva. Con il tempo mi sono sempre più indirizzata verso la Sindrome di Mairet, che è una condizione indicata anche come Iperestesia Gelosa. Nel tuo quadro clinico di confine tra normalità e patologia, le convinzioni che ti portano alla gelosia sono floride e occupano tutta la tua vita, e persistono provocandoti un'esistenza sofferente. Cosi della tua gelosia, hai costruito uno strumento di vita, una compagna inseparabile in ogni tua relazione. Quello che mi rassicurava nei tuoi discorsi antecedenti, era che mantenevi un costante confronto con la realtà, ma poi quest’ossessione è dilagata irrompendo i margini scivolando nell'incoerenza e, nella perdita di coscienza.»

 

«E quando è stato?»

 

«Circa sei mesi fa. Le scusanti che usavi per giustificare la tua gelosia pur facendo acqua da tutte le parti, potevano ancora entrare nella realtà, un po’ annebbiata ma ancora ancorata. A un certo punto hai smesso di confrontarti, dando per scontato e di diritto la tua gelosia, cancellando ogni dubbio sulla veridicità delle tue accuse. A quel punto mi sono preoccupata ed è colpa mia, avrei dovuto avvisarti. L'ilarità con cu raccontavi le giornate che trascorrevi con Claudio, erano solo una parentesi che apriva il varco nel tuo mondo d'insicurezza, dove la gelosia regnava in silenzio aspettando il trono.»

 

«Mi piace quando parli così, avrei voluto continuare..»

 

«Lo so.»

 

«Se non m'innamoravo dei miei clienti forse..»

 

«Saresti stata una bravissima psicologa!» affermò convinta Clara.

 

«Davvero?»

 

«Certo!»

 

«Il problema è che non mi ricordo più niente.»

 

«È normale se non eserciti. Ricordi cosa ti dissi? Continua a studiare il tempo lo trovi. Non hai voluto ascoltare i miei consigli e non so se per rassegnazione o altro, ti sei accontentata del tuo nuovo lavoro e così è cominciata questa lunga maratona alla ricerca dell'amore. Penso che quando si voglia assennatamente una cosa, questa non arriva, anzi fugge. A te è fuggita assieme alla razionalità. Non offenderti, non è un’accusa né un rimprovero. All'inizio era un avvertimento ma tu non avevi orecchie. Ora la cosa è degenerata e non riesci più a controllarla.»

 

«La Sindrome di Otello.» affermai.

 

«Sì Margherita.»

 

«Gelosia Delirante o Delirio di gelosia.» Ricordai all’improvviso nonostante il tempo trascorso, quando ancora credevo che sarei diventata una brava psicologa.

 

«Sì.» dichiarò Clara.

 

«Ah.. ah!» risi istericamente.

 

«Lo trovi divertente?» chiese Clara.

 

«No! Pensando all’accaduto, ora lo trovo buffo, uomini che si fanno menare da una donna!»

 

«Si sono fatti menare!»

 

«Sì sì, e allora? Emetti la sentenza!»

 

«Margherita», mise via il suo blocco notes prendendomi le mani. «da quanto tempo ci conosciamo?»

 

«Dai superiori.» risposi sorridendo, con nostalgia.

 

«Rammenti quando facemmo il patto di sangue?»

 

«Ah ah! Certo che mi ricordo. Che matte vero?»

 

«Io ci ho sempre creduto. Quel giorno, giurammo che non ci saremmo mai separate e, che non avremmo permesso a nessuno d'infrangere la nostra amicizia. Pensavo che tuttora fosse anche per te la stessa cosa.»

 

«E lo è!»

 

«Allora ascoltami per una volta, sai quanto ti voglia bene. Dopo che mi hai detto che prendevi quei farmaci ci sono rimasta male.»

 

«La tua collega.». sbuffai.

 

«Perché non mi hai interpellato?» domandò quasi offesa.

 

«Mi vergognavo.. »

 

«Di me?»

 

«Sì.»

 

«Perché?»

 

Dondolai la testa da una parte all'altra, non volevo dirgli che mi sentivo meno nei suoi confronti. Lei era arrivata affermandosi come psicologa; aveva il suo studio, un ricco portafoglio di clienti ed ebbe anche dei riconoscimenti. Mentre io? Non avevo finito gli studi, e per lo più sapevo di avere qualcosa che non andava. Non volevo ammetterlo a me stessa e per questo motivo mi gettai fra le braccia di uomini appena conosciuti, amandoli sin dall'inizio, auspicando in un vero amore con la speranza di trovare in essi la cura al mio dolore. Dolore.. Sapevo di star male. Eppure mi era impossibile accettare di essere malata. Io che volevo curare gli altri da forme patologiche psichiche, io ne soffrivo. Sapevo anche che sarei dovuta ricorrere a un aiuto, ma associai la malattia all'insicurezza, a un’infanzia e adolescenza triste. Ricordo nei miei tirocini durante gli studi, una ragazza più giovane di me mi raccontò di essere stata abusata da suo padre. Inorridì e, prendendo subito le sue difensive andai dal padre gridandogli parole oscene. Lui mi denunciò e così la mia insicurezza aumentò. Feci un passo falso. Non era così che dovevo muovermi ma, l'istinto mi conduceva all'azione, senza dar tempo alla ragione di fornire le giuste manovre per muovermi nel modo più appropriato. Dopo un po' di tempo seppi da voci di corridoio, che la ragazza in questione fuggì da casa, dopo una discussione che finì malamente purtroppo per lei che fu maltrattata dal padre. Il padre alla fine fu arrestato per molestia e per delitto d’incesto. Durante i processi fui chiamata a testimoniare, ma le mie parole non fecero molto leva, così la ragazza disse che non fui molto convincente come se non credessi in quello che stavo dicendo, comunque mi ringraziò. Il padre rimase in galera per due anni, poi uscì per buona condotta. Rimasi stupefatta quando lo venni a sapere: due anni di abuso erano ripagati con due anni di galera. L'unica consolazione fu la perdita della patria potestà. Assurdo! Pensai che se avessi denunciato il padre con la sfortuna che avevo, sarei finita in galera e avrei perso quel poco di stima che mi rimaneva.

La situazione non migliorava, con il tempo, notai il mio peggioramento. Un giorno mi svegliai nel tardo pomeriggio sul divano, ero distrutta; scoprì di essermi strappato la maglia e i capelli e, ve ne trovai alcuni sparsi sul mio corpo e, cercai di rammentare l’accaduto. Forse ebbi un incubo e, senza volere mi ero ridotta in quella condizione. Oppure in stato confusionale, ero caduta in una sorte d’ipnosi in cui non dominavo la mente e, ignara delle azioni o visioni che non sempre rammentavo, cercavo di difendermi dai mostri che assumevano varie sembianze: scarafaggi, vermi e topi. Non raccontai nulla a Clara per non preoccuparla e, andai da una psicologa di mia conoscenza. Esposi la situazione e, dopo avermi attentamente ascoltato, m’indirizzò da uno psichiatra. Ci rimasi male, non credevo di avere tale necessità, o, non volevo ammetterlo a me stessa. Al suo invito gli risposi negativamente, lei insistette dicendo che dovevo assolutamente curarmi per tenere sotto controllo la psicosi, altro termine che non deglutì. Dovetti confermare a me stessa, che in me c’era qualcosa che non andava, ma non riuscivo accettarlo. Convinsi la psicologa di non fare parola con Clara, giacché era una sua collega, inoltre gli chiesi di fare un ciclo di sedute, per comprendere il mio problema che, secondo me non so per quale ragione, era associato in parte a un fatto accaduto nell’infanzia. La psicologa obbiettò la mia considerazione e, mi spiegò che la mia patologia non era da sottovalutare. In breve, affermò che soffrivo di - psicosi bilaterale maniacale a cicli rapidi- Gli rammentai che gli episodi non erano frequenti ma, sporadici, e che i miei stati d’umore non erano un’altalena di emozioni causati da improvvise situazioni che mi fuggiva di mano, ma alla sofferenza d’amore che fin da ragazza mi allacciava al desiderio di incontrare un uomo che mi amasse. Soffrì molto per la perdita di mio padre, e fui convinta che la ricerca di amore che predominava i miei pensieri, fossero la risposta all’insaziabile ricerca di un partner. La psicologa non fu per niente convinta ma, accettò di seguirmi per un periodo facendomi promettere di assumere un antipsicotico per prevenire futuri attacchi. All’oscuro di Clara presi il medicinale, evitando il blando ansiolitico che Clara mi aveva prescritto e, mi sottoposi alla terapia. Scoprì con il tempo che da piccola caddi in una buca, dove scarafaggi e vermi dimoravano tranquilli in quello che mi sembrò un pozzo senza fine. Ci vollero molte sedute per scoprire ciò che ritenni la mia fobia. La psicologa non era per nulla convinta che la scoperta di un avvenimento per quanto sentito, potesse essere la risposta al mio problema. Forse non aveva tutti i torti ma, associato all’inarrestabile ricerca di un uomo, la mia possessività ed estrema gelosia, la morte di mio padre, la disavventura da bambina, poteva essere la risposta agli attacchi che non riuscivo a gestire. Ero più che convinta, che solo l’amore sarebbe stato l’antidoto al mio malessere. Appurato ciò, smisi di prendere antidepressivi, ritornando al blando ansiolitico che mi prescrisse Clara, ritrovando la lucidità dei miei pensieri, pur ritenuti folli. Con mio rammarico, Clara venne a sapere delle mie sedute dalla collega preoccupata per la mia salute, mantenendo celato le conversazioni per via del segreto professionale.

 

«Non vuoi proprio dirmelo, vero?» domandò Clara.

«Non mi va di ricordare..»

«È proprio qui che sbagli! Non parlandone! Pensi che gettando alle spalle il passato, riuscirai a costruire un futuro?»

«Non voglio ricordare!»

«Va bene fai come vuoi! Sappi però che così aggraverai la tua condizione! Io posso aiutarti, dammi una possibilità. Non ti fidi di me?» abbassò lo sguardo in una smorfia di dolore.

Non riuscì a trattenere una lacrima che scivolò sulle labbra, ne assaporai il gusto amaro. Ecco, quel momento era arrivato e dovevo uscirne. Ma come fare! Bussarono alla porta, era la segretaria che avvisava Clara che era in ritardo per il prossimo appuntamento. Levai le mie mani dalle sue e alzandomi dissi: «Sarà per la prossima volta.»

«Ma perché ti ostini a venire qua in studio? Sai bene che a casa mia avremmo più tempo! E sai che non ho nulla in contrario.»

Alzai le spalle con un fare rassegnato, poi come se cadessi dal cielo, risposi: «Diciamo che qui mi sento più una a mio agio.» ostentando un sorriso a denti stretti. «Oltre a essere malata sono pericolosa?»

«Potrebbe succedere di nuovo. Se comprendessi la fonte del tuo malessere, se solo ti aprissi invece di parlarmi delle tue disavventure.»

«Non dovrei?»

«Sì scusa è importante, ma non è in questo modo che troverai te stessa.»

«Quella che vedi è me stessa, e questo è il mio cammino.»

«No! Te stessa la devi cercare nel passato per camminare nel presente.» suggerì Clara.

La guardai velando una smorfia e, i suoi occhi si accesero di dubbi.

«Vorresti farmi intendere che sei alla ricerca della chimera che assumerà le sembianze di un cavaliere errante, che t’isserà sul suo cavallo bianco e, con il suo amore ti curerà le ferite?»

«Perché no!» risposi.

Sospirò sconfortata girando attorno al divano, poi mi squadrò come voler leggere i miei pensieri, ma vi trovò un muro alto, dove lei non aveva il lasciapassare. Alla fine stordita dai discorsi, si gettò sul divano e rassegnata disse: «Hai vinto per ora. La tua mente è una miriade di pensieri, di cui non riesco a ghermire la trama del romanzo che hai costruito. Ti chiedo solo.. anzi ti supplico di non fare più quello che hai fatto, di informarmi sempre ogni passo della tua vita e, di non arrischiarti oltre. Quando la tua mente comincia a navigare e sono sicura che ti accorga di essere in alto mare, prima che le onde offuscano i tuoi occhi, cerca il mio cuore che non ha mai smesso di battere per te!»

«Ho ancora quella lettera», dissi. «ricordo ogni parola, me la scrissi quando partisti per uno stage, l'ho sempre tenuta con me. Tu non ci crederai.»

Me ne andai, lasciandola sul divano mentre mi osservava triste.

Passarono due mesi dall’ultimo incontro. Non risposi alle sue telefonate e, non mi feci trovare quando venne a cercarmi a casa. Seppi che chiese di me ai miei famigliari, ai miei amici e, addirittura ai miei ex. Nessuno sapeva dov'ero, tranne la mia famiglia che feci promettere di non rivelare niente di me, ma a mia volta li assicurai che stavo bene e che mi sarei fatta sentire. Mia madre e i fratelli mi chiesero inutilmente il motivo del mio comportamento ma, tergiversai prendendo tempo. Un giorno entrai senza preavviso nello studio di Clara, a dispetto della segretaria che non voleva farmi entrare senza preavviso. Quando Clara mi vide, si alzò abbracciandomi forte per alcuni istanti, poi rivolgendosi al paziente che aveva in cura, gli disse che il tempo era terminato nonostante questi non era d'accordo. Fu concisa e determinata nel rimandarlo a un altro giorno, scusandosi più volte per l'inatteso avvenuto. Quando fummo sole, ci guardammo nel caotico silenzio che ci circondava. Mi sedetti sul lettino. Clara prese taccuino e penna poi, sorridendo ironicamente disse: «Mi dica.»

Presi fiato e riavvolgendo gli ultimi avvenimenti accaduti, mi concentrai in essi in una sorta di déjà vu e, cominciai a narrare la mia storia: «Tempo fa ho incontrato una persona.»

«Sì..»

«Devo premettere che è un bellissimo ragazzo.»

«Non avevo alcun dubbio!»

«È dolce.»

«Sì..»

«Sa ascoltare o, perlomeno è interessato a quello che dico.»

«Ah!»

«È molto attento e premuroso.»

«Poi?» incalzò impaziente Clara.

«Mi ama.» Non so se diede importanza a queste ultime parole, o forse fece finta di niente.

«Da quanto tempo state insieme?»

«Da due mesi.»

«Il tempo, da cui non ti ho più visto?»

«Esattamente!»

«E dove vi siete incontrati?»

«Qui.»

«Qui?» chiesa stupefatta.

«Non dentro lo studio.»

«Ah! E dove più precisamente?»

Non stava più nella pelle. Mi analizzava, cercando di denudare una benché minima debole espressione che potesse far crollare la scorrevolezza del mio narrare, ma non ve ne trovò. Poggiò il gomito sulla gamba mentre la mano reggeva il mento e, notai vacillare la sua professionalità nell'esitazione. Poi mi ripeté la domanda: «E dove precisamente?»

«Chi?» sghignazzai.

«Lui, il tenero amante.»

«All'entrata del portone. Diciamo che ci siamo scontrati, e lui mi ha chiesto in che piano fosse la psicologa.»

«Bene bene, e che gli hai risposto?»

«Ovvio al quarto piano!»

«E lui?» chiese sempre più curiosa.

«Mi ha chiesto se potevo accompagnarlo, per lui era la prima volta.» Mi sistemai un ciuffo di capelli che mi copriva la vista. «Risposi di sì. Prendemmo l'ascensore e mentre salivamo notai una perplessità sul suo volto, gli chiesi cosa lo turbava e lui rispose di non essere sicuro di voler andare avanti. Dissi di non temere, che sei molto brava, che ti conoscevo e lo rassicurai riguardo a.. cioè..»

«Cioè? Prosegui!»

«Non è così semplice andare da uno psicologo, e aprire il proprio cuore con annessi. Anche se si è coscienti che ci si troverà davanti a una figura professionale, che essa manterrà privato tutto quello che dici, nasce il dubbio se sarà all'altezza di comprenderti o, se ti prenderà per pazzo. Poi ti presenterà il conto e ti ritrovi oltre l'insofferenza che dilania il tuo animo e la parcella da saldare. Magari ti riempirà di farmaci per addolcirti..»

Dissi queste ultime parole a voce bassa, rammentando che fu proprio lei, dopo che venne a sapere che facevo uso di antidepressivi di tornare al calmante che mi prescrisse, nell’attesa di comprendere il mio male. «Magari è più pazzo di te, oppure ti guarderà con disprezzo.. Le ipotesi si concatenano una dietro l'altra e, il sopravvento si perde all'abbandono di quel gesto che ti portò davanti alla porta, dove a destra, c'è una targhetta con scritto Dott. etc. Stai per schiacciare il pulsante che avvertirà la tua presenza ma, la mano si appesantisce e senti di non potercela fare. Guardi fisso quell'etichetta immobile, sublime sul muro che ti mette in soggezione, e che se la tira con tutta la sua sobrietà, riprendi il gesto con la mano e, di nuovo ti avvicini al campanello. A volte riesci ad andare fino in fondo, altri torni indietro con il cuore gonfio e la mente stanca.»

«È questo che è successo a lui?»

«Sì.»

«Siamo tornati indietro e ci siamo infilati in un bar. Abbiamo preso un caffè, e pensa, anche a lui piace berlo come a me, lungo e macchiato caldo.»

«Questo non dice niente.»

«Mi ha chiesto se volevo cenare con lui.»

«Ci avrei giurato.» rispose con tono impassibile. Anche se ero sicura, che ciò che le stavo raccontando la turbava incuriosendola ma, nello stesso tempo manteneva stretta la sua professionalità, magari per non ammettere che c’è sempre un’eccezione, che piò deviare le regole.

«A lui piace la cucina cinese, ah ah! Come a me!»

«Anche questo non è rilevante.»

«Siamo andati al cinema scegliendo un film di fantascienza, sai quel genere futuristico che tanto adoro». Esitai un attimo prima di continuare. Percepivo la sua curiosità crescere, e toccavo l'impazienza che mi esortava ad arrivare al dunque. Infine saziai nettamente la sua bramosia pronunciando le fatidiche parole: «Mancavano pochi minuti alla fine del film, quando lui adagiando il suo sguardo languido e ricco di speranza sui miei occhi, mi ha detto che dal primo momento che mi ha visto, ha sentito che la sua vita stava prendendo una svolta. Gli ho domandato se era un presagio positivo, lui mi ha risposto, che se anche non lo fosse stato avrebbe corso il rischio.»

«Non dirmi che ti ha detto ..»

«Sì,» risposi beata in un’immensa felicità. «mi ha detto di amarmi.»

«Non è possibile!»

«Perché?»

«Non ci si può innamorare in un giorno! Dai! Ancora credi alle favole!»

«Sì, se può servire a respirare, sì. E poi che c'è di male!»

«Dunque sei innamorata?»

«Sì.»

«Ne sei convinta? E sei sicura che anche lui lo sia?»

«Sì!»

«E ora che pensi di fare?»

«Di amarlo e di farmi amare, che domande!»

«A proposito.. come si chiama?»

«Giusto non te l'ho ancora detto!»

 Mi volsi ad ammirare il cielo che sembrava disegnato a tratti da un pennello, che spinto da una mano leggiadra esplodeva armoniosamente in un arcobaleno di emozioni.

«Allora? Mi vuoi dire il suo nome?» chiese impaziente.

«Già.. Si chiama Otello.»

 

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