RAVENSBRUCK - LAGER DIMENTICATO DELLE DONNE
27 gennaio 2020
di Mariangela Mombelli
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria, momento in cui tutto il Mondo ricorda le vittime dell’Olocausto. Auschwitz, Birkenau, Dachau…sono i nomi che più ricorrono quando si parla di campi di concentramento, pochi ricordano Ravensbruck, l’unico grande lager, aperto nel 1939 a nord di Berlino, destinato alla “detenzione preventiva femminile”.
A Ravensbruck venivano rinchiuse donne definite “asociali” perché non contaminassero la razza ariana: malate di mente, disabili, oppositrici politiche, comuniste, lesbiche, vagabonde, mendicanti, rom e, solo in via marginale, ebree. Nei sei anni di esistenza del lager si stima che passarono da Ravensbruck 130.000 donne di cui un numero imprecisato tra le trentamila e le novantamila persero la vita, dati incerti vista la scarsa documentazione rimasta dopo che molte carte furono distrutte per nascondere i crimini nazisti. L’orrore declinato al femminile: non solo perché le recluse erano donne, ma anche perché il personale di sorveglianza era formato da speciali reparti femminili delle SS che si resero complici di atrocità terribili, come Hermine Brausteiner, che uccideva i bambini calpestandoli sotto gli occhi delle madri a cui era stato concesso di portare a termine la gravidanza. Le donne internate subirono sevizie, torture, aborti, sterilizzazioni, esperimenti pseudoscientifici con cui si voleva provare la superiorità della razza ariana, oltre a essere impiegate come prostitute nei bordelli interni agli altri campi di concentramento, concesse come divertimento agli ufficiali o come premio ai collaborazionisti. Molte delle “non conformi” che subirono le atrocità più devastanti erano lesbiche, la categoria più insignificante per i nazisti. Infatti, mentre i gay con la loro omosessualità mettevano in discussione l’identità maschile, l’identità femminile in quanto passiva per i nazisti non era degna di alcun interesse, ma il comportamento “deviato” delle lesbiche, a cui non venne nemmeno attribuito il triangolo rosa che identificava i gay, andava comunque represso.
Le donne internate a Ravensbruck ebbero la forza di mettere in atto tutta la loro capacità di resistere e combattere attraverso un movimento di solidarietà e resistenza clandestino che cercava di aiutare chi di loro era più esposta. Da quel movimento partivano le istruzioni per proteggere il più possibile i bambini, per sottrarre alla violenza delle Kapo e delle ausiliarie SS le compagne prese di mira, per sabotare l’attività dei lavori forzati a cui erano sottoposte. Questa solidarietà, trasversale a ogni nazionalità, religione, militanza politica, condizione sociale, fu la sola ancora di salvezza a cui fu possibile attaccarsi per non naufragare nel mare di violenza in cui i nazisti cercavano di far affogare le proprie vittime. Ravensbruck fu liberato il 30 aprile 1945: il campo fu evacuato qualche giorno prima e ad attendere i liberatori rimasero circa 3000 donne in condizioni pietose. Per molto tempo, almeno fino alla fine della Guerra Fredda, Ravensbruck fu una storia taciuta; tra le ragioni di questa rimozione sicuramente c’è la riluttanza delle sopravvissute a parlare: chi è riuscita a tornare a casa, spesso si vergognava per quello che aveva subito, come se fosse stata colpa sua, esattamente come le donne bosniache atrocemente violentate dai serbi nella guerra della ex Jugoslavia. Una vivida ricostruzione di questo capitolo tristissimo della nostra storia è fatta dalla giornalista inglese Sara Helm nel libro “Il cielo sopra l’inferno”, in cui l’autrice racconta la storia di Ravensbruck partendo dai dettagli della vita quotidiana del campo e ricostruendo le biografie delle prigioniere, delle guardie e dei medici dentro la grande narrazione del contesto storico in cui tutto è avvenuto.
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