27 NOVEMBRE 1941: AFRICA ADDIO

27 novembre 2018

di Giovanni Curatola
 
QUELL’ULTIMA BANDIERA AMMAINATA IN ABISSINIA…
 
Esattamente 77 anni fa, 27 novembre 1941, con la caduta dell’ultimo presidio (quello del gen.Nasi) dell’ultima sacca di resistenza italiana in Africa Orientale (Gondar) ad opera delle preponderanti armate inglesi, terminava la nostra breve esperienza nei territori di un Impero risorto appena 5 anni prima. Anacronistica quanto si vuole (fu oggettivamente l’ultima guerra coloniale con cui una potenza europea creò il suo impero in un periodo in cui le altre stavano iniziando a dismettere i propri), quella del 1935 fra Italia ed Etiopia (detta comunemente Abissinia) resta ad oggi la guerra in assoluto più sentita e coralmente partecipata dal popolo italiano. Più delle lotte risorgimentali, della Resistenza, e delle stesse guerre mondiali. Se infatti fu la linea difensiva del Piave, fra l’autunno tragico di Caporetto e quello successivo di Vittorio Veneto, a segnare il momento di maggior coesione, risolutezza e unità spirituale raggiunto dai soldati italiani in battaglia nei loro due secoli di storia unitaria, fu l’impresa coloniale del 1935-36 ad accendere maggiormente la fantasia del “fronte interno”, del popolo a casa non coinvolto direttamente nelle (lontane) operazioni militari eccezion fatta per i fanti del Regio Esercito e le camicie nere della Milizia lì impegnati. L’ondata di passione che quell’impresa suscitò non ha eguali, e riconoscerlo non è operazione apologetica del fascismo quanto preservazione dall’oblio di un momento di sincero ed irripetibile entusiasmo della vita della nazione. Slancio italiano prima ancora che fascista, slancio la cui frettolosa dimenticanza sui libri di scuola è una delle più significative conferme delle parole che pronuncerà il socialista Nitti nel dopoguerra: “Per nuocere al fascismo, noi abbiamo fatto cosa pessima ai danni dell’Italia”.
Dagli scolari in classe e dai genitori a casa che nel ’35-’36 segnavano sulle mappe appese al muro, con piccole bandierine tricolori, l’avanzata delle nostre truppe, alla forte commozione e dal senso di rivincita provata dai tanti ancora in vita che in quegli stessi luoghi (Adua, Axum, Macallé, Amba Alagi) erano stati sul finire dell’800, da casa o dal vivo, testimoni delle prime luttuose ed umilianti sconfitte coloniali del nostro paese. Da una mobilitazione popolare senza precedenti (le prime adunate oceaniche vespertine e notturne nelle piazze d’ogni città, la “giornata della fede”, la sottoscrizione dei buoni del tesoro, la raccolta di oro, ferro e lana per sostenere l’impegno bellico) al massiccio afflusso volontario ai distretti militari di decine di migliaia di giovani pronti ad arruolarsi e partire. Da una sterminata produzione canora di più o meno spontanei motivi musicali che fecero da baldanzosa colonna sonora ad un’impresa da tutti avvertita come storica e proprio per questo a cui tutti intendevano in un modo o nell’altro partecipare. Dall’immaginazione collettiva, stuzzicata dall’esoticità dei luoghi e dalle fantasie sessuali con le procaci abissine, alle sanzioni economiche comminate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia paese aggressore (su cui tanto contavano gli oppositori del regime di Mussolini per vederselo rovesciato, e che invece ebbero il risultato diametralmente opposto: compattare ancor più il popolo attorno al suo governo e al suo capo ed aumentare a dismisura il disprezzo per paesi come Inghilterra e Francia che detenevano colonie in mezzo mondo e che ora si ergevamo a moraliste contro chi stava cercando di ritagliarsi un suo piccolo “posto al sole”). Dalla smania di eroismo, visibilità e spavalderia innate nel Dna italico e dal 18 assicurato agli universitari al fronte, alla missione civilizzatrice di cui l’italiano medio si era convinto essere investito (l’Etiopia era pure sempre uno degli ultimi paesi dove ancora vigeva lo schiavismo. E, più che i gas enfatizzati ad hoc dall’antifascismo di maniera, fu proprio l’abolizione della schiavitù applicata nei territori via via conquistati dagli italiani ad accelerare la diserzione di molte tribù indigene e il conseguente indebolimento delle forze abissine). Dalla benedizione della Chiesa per questi crociati del XX secolo che portavano Cristo tra la barbarie millenaria, agli antifascisti esuli all’estero contagiati anch’essi da quest’irruente ondata di patriottismo che spinse alcuni di essi a scrivere un appello di pacificazione ai “fratelli in camicia nera”.
Tornando al 27 novembre 1941, a chi scrive è toccata la fortuita e fortunata avventura di vedere la bandiera ammainata quel giorno a Gondar, che poi fu l’ultima bandiera italiana in Africa Orientale. L’acquistò per 25 sterline l’ex sottotenente medico del II° Gruppo Bande Dubat Riccardo Mascetti, comasco, presente alla capitolazione. L’avevano strappata dagli spalti di Gondar le truppe coloniali inglesi, che ora la stavano poi usando come giaciglio al posto di guardia dell’ospedale di Harar, dove il Mascetti si trovava prigioniero e dove appunto l’acquistò, per poi affidarne il trasporto in Italia alla crocerossina torinese Paola Govean. Conobbi Mascetti nell’agosto 2003, quando mi ospitò nella sua casa comasca intrattenendomi con diversi ricordi e mostrandomi quello storico vessillo appeso in una grande teca in salone. Sconoscevo l’esistenza sua e di quella bandiera fino al giorno prima, quando ne sbirciai per caso il libro di memorie in una bancarella comasca. Colpito dal fatto, dopo un rapido calcolo anagrafico che mi incoraggiava a trovarlo ancora in vita e lì nella sua Como, misi mano all’allora elenco telefonico e dopo un paio di tentativi lo rintracciai. Trovandomi così l’indomani catapultato nella sua cordialità, nel fragore dei suoi biscotti e nell’ammirazione per quel pezzo di storia appeso al muro.
 
 
 
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