Italo Balbo, un aviatore d'altri tempi
18 aprile 2016
di Giovanni Curatola
Volontario nella Grande Guerra negli Alpini prima e negli Arditi poi (unità scelte che dal 1917, quando furono istituite, annoveravano gli elementi più coraggiosi e determinati dell’esercito). Turbolento segretario del Fascio di Ferrara poi, negli anni dello squadrismo. Quadrumviro della Marcia su Roma. Comandante generale della Milizia, poi sottosegretario al Ministero dell’Economia Nazionale, quindi Ministro dell’Aeronautica e governatore della Libia durante il regime. Ideatore tra il 1930 e il 1932 di due trasvolate oceaniche senza precedenti (che gli regalarono immensa popolarità, soprattutto negli Stati Uniti) e nel 1938-39 di una colonizzazione di massa in Libia sulle orme di quella di qualche anno prima nell’Agro Pontino. Una ventina di onorificenze, fra cui una medaglia d’oro e due d’argento al valor militare. La vita di questo ferrarese che risponde al nome di Italo Balbo, mente cocciuta ma finissima, è sempre stata “al massimo”. Una vita esclusiva e irripetibile, giacché in lui come in nessun altro hanno convissuto due persone: lo spaccone sprezzante del pericolo e l’amministratore avveduto e generoso. Il coraggiosissimo uomo d’azione, capace di imprese straordinarie, e lungimirante uomo politico, capace di amministrare con saggezza e far fiorire una colonia (la Libia) all’insegna della pace e dell’equilibrio sociale. Insomma, lo statista perfetto e l’eroe di una vita così spericolata che neanche il più intrepido Vasco Rossi avrebbe anni dopo potuto lontanamente immaginare.
Si diceva che era uno dei pochi gerarchi che dava del tu a Mussolini (falso, glielo davano in tanti) e capace di affrontarlo a muso duro (vero, soprattutto quando il 31 dicembre 1924 irruppe nel suo studio con altri gerarchi per indurlo a rompere gli indugi dopo la crisi Matteotti ). Di lui lo stesso Mussolini diceva che sarebbe stato l’unico capace di ucciderlo, ma era un elogio al suo forte temperamento. A parte qualche screzio, fra cui la notoria avversione di Balbo alle leggi razziali e all’alleanza con la Germania, i due si conoscevano e si stimavano troppo. Quando, altra diceria, Mussolini lo relegò in Libia, non fu tanto per gelosia verso la sua crescente popolarità che (specie all’estero dopo le trasvolate) minacciava di offuscare la sua, quanto perché in quella colonia ancora arretrata e non pacificata serviva qualcuno che portasse ordine e sviluppo. E scelse quanto di meglio aveva a disposizione. E Balbo, appena messo piede a Tripoli, gli telegrafò: “Mio grande capo, sempre gli ordini!”. Così come quando nel 1940, all’indomani della sua morte (l’Italia era entrata in guerra da appena 2 settimane e l’aereo di Balbo fu abbattuto per errore dalla contraerea italiana nei cieli di Tobruk, e l’aviazione inglese paracadutò una corona d’alloro e un messaggio di cordoglio per quel nemico così stimato e valoroso) circolò malignamente la voce che, sempre accecato dalla gelosia, fosse stato lo stesso Mussolini a ordinarne la sua eliminazione fisica.
Su come sarebbe finita senza quell’incidente si possono formulare mille ipotesi. Di certo c’è che per carisma e capacità Balbo era senza dubbio il migliore degli uomini di Mussolini. Certamente, anche perché più giovane di 13 anni, il più indicato a succedergli. Probabilmente (ma questo lo penso io) anche in caso di guerra persa avrebbe mantenuto un ruolo di primo piano, giacché gli Alleati avevano in grandissima stima quest’uomo di cui nulla poteva essere accusato e che così tanto aveva spopolato in America qualche anno prima. Di sicuro, se fosse stato ancora in vita, dopo l’8 settembre non sarebbe andato a Salò…
La tomba di Italo Balbo, sul momento lasciata a Tobruk in attesa di rimpatriarla a guerra finita, sarebbe ancora lì se nel 1970 Gheddafi non avesse cacciato gli italiani dalla Libia confiscandogli beni e averi. Per 30 anni Italo ha così riposato tra le dune di quella terra africana dov’era caduto. Quell’Africa che aveva governato con quelle doti di saggezza, equilibrio e lungimiranza con cui solo si poteva metter fine (come mise) al marasma e all’anarchia che aveva trovato nel 1936 e che oggi nuovamente regna oggi laggiù. In soli 4 anni l’ex squadrista ferrarese trovò la formula per far convivere pacificamente, e collaborativamente, italiani e arabi, cattolici e musulmani. Chiese e moschee accanto, altro che oggi… In lande un tempo assolate e rese giardini dal lavoro di bonifica e irrigazione, fondò una decina di villaggi per contadini italiani (ne fece arrivare 32.000 in due ondate, mettendosi alla testa di una spettacolare e coreografica spedizione di 17 navi), e altrettanti per gli indigeni. Per ciascuna famiglia, come in Agro Pontino, c’era un podere con tutti i servizi necessari più animali, attrezzi e terra da lavoro. Pretese che i libici ottenessero i pieni diritti degli italiani i Italia (fu accontentato solo in parte) e modernizzò le città della costa, fondò e aprì al turismo le aree archeologiche di Leptis Magna e di Sabratha, fece costruire la più grande opera mai vista in Africa, quella grande strada costiera che portava il suo nome (“via Balbia”) e che per 1.832 km attraversava tutta la Libia dal confine tunisino a quello egiziano, riuscendo a spendere meno dei 103 milioni stanziati e restituendo la differenza a Roma (decisamente altri tempi…). Autodromi, galoppatoi, impianti sportivi, hotel, locali da ballo, lidi balneari e fiere (fra cui la lotteria di Tripoli) resero più allegra e gioviale quella “quarta sponda” (lo stesso Balbo, sensibile al fascino della bella vita e delle belle donne, tenne numerose feste al suo palazzo), sviluppando, in un clima finalmente pacifico e sereno, quel turismo impensabile fino a qualche anno prima, quando Graziani e Badoglio avevano messo a ferro e fuoco la colonia alimentando odi e attentati agli italiani che erano all’ordine del giorno.
Ritirate dalla Libia, come detto, nel 1970, le spoglie di Balbo oggi riposano a Orbetello. La famiglia gli preferì quel piccolo comune toscano alla natìa Ferrara e a Guidonia (la “città dell’aria” da lui fondata alle porte di Roma), perché lì iniziarono e si conclusero le due imprese aviatorie che più lo resero celebre in Italia e all’estero, e il cui accenno che segue mi sembra la degna conclusione della memoria di questo che fu uno dei migliori italiani di ogni tempo.
Da Orbetello appunto (era già ministro dell’Aeronautica) partì con una squadriglia di 12 idrovolanti il 17 dicembre 1930 per una “crociera aerea” di 10.350 km (e altrettanti al ritorno) che lo portò in 7 tappe a Rio de Janeiro (l’ultima in 18 ore di volo alla velocità di 162 km/h). Mai nessuno stormo di aerei aveva osato tanto, spingendosi al di là dell’oceano. Quando toccò terra in Brasile, lo spettacolo teatrale della Scala fu interrotto da scroscianti applausi. Sempre da Orbetello partì la seconda spedizione, quella che raddoppiò le difficoltà della prima e che né il re né Mussolini all’inizio approvarono pensando che stavolta il cocciuto ministro ferrarese si stava impegnando in qualcosa di troppo superiore alle forze umane. La nebbia, permanente lungo tutto il tragitto scelto, era l’incubo peggiore. Ma Balbo non sentì ragioni: nel decennale della Marcia su Roma e del ministero dell’Aeronautica voleva dimostrare, soprattutto all’America, la vitalità dell’Italia fascista in un periodo di grande recessione e sottopose l’equipaggio selezionato a durissimi allenamenti. Alle 4.47 del 1° luglio 1933 24 idrovolanti si alzarono in volo e 7 ore dopo planarono ad Amsterdam, salutati dall’aviazione e dalla marina olandese. Le successive tappe in Irlanda e Islanda misero a durissima prova la spedizione, che ebbe i primi morti. L’arrivo della flotta in camicia nera a Cartwight, nel Labbrador, e a Montreal fu salutato da canti, banchetti e ricevimenti. Il 15 luglio, dopo 9.080 km totali di volo, Balbo giunse a Chicago salutato da una popolazione impazzita. Il sindaco lo omaggiò delle chiavi della città e gli intitolò la 5° strada che ancor oggi porta il nome di “Balbo Avenue”. La comunità dei Sioux lo elesse capo dei pellirossa e giorno 19, a New York, milioni di persone si riversarono nelle strade tappezzate da coriandoli e festoni dove passò la prima squadriglia al mondo giunta dall’Europa via cielo. I tanti ricevimenti delle comunità italo-americane e la visita alla Casa Bianca voluta dal presidente Roosevelt sugellarono quei giorni americani in cui l’Italia era sulla bocca di tutti riempendo di commozione e orgoglio non solo un centinaio di piloti, ma l’intero nostro paese e le numerosissime comunità di italiani trapiantati oltreoceano. I giornali di tutto il mondo per una settimana non parlarono quasi d’altro. Gli ultimi festeggiamenti al ritorno in Italia, dopo altri 10.000 km di rischiosissimo volo, quando Mussolini volle far passare sotto l’Arco di Costantino quell’amico-eroe che meglio di chiunque altro stava simboleggiando quell’Italia maschia, spavalda, tenace e avventuriera che in quegli anni si stava illudendo di creare.
Italo Balbo, Quartesana (FE) 1896 - Tobruk (Libia) 1940
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News » PERSONAGGI | lunedì 18 aprile 2016
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